TOTO' 'A MUNNEZZA
C'era una volta, tanto, tanto, tanto, tanto, tento tempo fa... quanto?... Tanto! e no eh, non cominciamo ad interrompere! Dunque... porca miseria che mi fate perdere il filo!... dicevo?... ah, sì, c'era una volta una delle tante città della Repubblica Sud Latina: Napùlez, Roio Do Ganeiro, Corleones City, Mecico Vila. Mille lussuose baraccopoli tranquille, dove l'unico suono che si udiva era un occasionale lamento: aiuto... aiuto...!
I dissidenti? C'erano eccome, un vero e proprio fronte rivoluzionario, considerato dal governo, piccolo borghese e nichilista: i topi! La città di cui vado scrivendo era così sporca che ogni fine i |
poveri animaletti andavano a manifestare in corteo davanti al municipio: "Uomini, carogne, ridateci le fogne! Uomini, puzzoni, lavatevi i fettoni!" Date le condizioni igieniche in via di sviluppo un pomeriggio, verso le cinque e dieci, scattò la tradizionale epidemia di colera. Era l'ora del tè e i medici, nella confusione, commisero un madornale errore, prendendolo con il latte e non col limone. Accortesi che il tempo passava inesorabilmente, le efficientissime autorità sanitarie corsero ai ripari andando a giocare a golf.
Ad arginare il diffondersi del morbo mandarono i vigili del fuoco, che incendiarono migliaia di baracche, fortunatamente prima che la gente potesse abbandonarle per invadere la city con i suoi splendidi grattacieli d’acciaio e cristallo, in puro stile statunitense. Ai più deboli, vecchi e bambini, ovviamente salì la temperatura oltre i 40°, anche se rapidamente si riabbassò, grazie al provvidenziale intervento di un tifone di passaggio, battezzato El Toreador de las bolas.
Il Ministero degli Interni e quello della Sanità, che erano la stessa persona, plaudirono all'operazione antiterroristica definendola, senza mezzi termini, puro atto di clemenza, visto che i rivoltosi, o meglio i rivoltanti, durante il censimento alla domanda: - Nato? avevano risposto: - Purtroppo.
Emergenza sanitaria a parte, il problema della povertà era molto sentito dal Presidente: "Il popolo ha fame? Facciamolo mangiare... dagli alligatori!"
Il Capo, detto Il Terribilissimo, aveva acquistato a pezzi la sua Repubblica durante i saldi praticati dalle altre nazioni in difficoltà, pagando in coca per far dispetto alla Pepsi. Il Terribilissimo era un uomo terribile, lo dice l’aggettivo stesso. Narra la leggenda che non lo portò la cicogna ma l'avvoltoio.
In realtà nacque all'improvviso durante un allagamento dell'appartamento dei suoi genitori, che erano decisamente tirchi: così ne approfittarono.
Al Terribilissimo la faccenda non piacque neanche un po’ e per ringraziare l'improvvisato ostetrico che lo aveva portato al mondo risucchiandolo con una ventosa da lavandino, gli staccò due dita con un morso. L'uomo, stupito e sanguinante, disse alla madre: "Signora, per partorire non avrebbe dovuto chiamare un idraulico ma un accalappiacani."
Il Terribilissimo tuonava alla radio, rituonava sui giornali e rirituonava in televisione: "Siamo poveri ma fieri e felici! La gente nostra è la nostra ricchezza, la gente nostra è viva e vegetale, la gente nostra è mia.
Noi siamo gli eredi della civiltà con la M maiuscola che odora forte: i conquistadores, l'inquisizione, i turchi e i saladini, i Borboni, e più indietro ancora la Magna Grecia, più magna che Grecia. Governarvi non è difficile, è inutile. Poi una bella parata militare, la pubblicità della Pummarola Fuego A Volontà e infine un bel cartone, non animato ma riciclato, dove i bimbi si accomodavano felici per fare la nanna sotto un ponte, mentre le melodiche ugole del bel canto popolare, intonavano canzoni di questa fatta:
Dal Vesuvio al Pan di Zucchero
qui la vita è nu sollucchero,
samba, pizza e tarantella,
la giornata passa bella,
na Marsala e na Batida
e la caca è mui florìda:
tortias, tortias e fiaschi di gin,
Pelé sei pallido come Tochigno,
nu poco de vigno e del cili col rum!
Insomma, un popolo felice che adorava un solo dio, Maradona Seduto, e passava intere giornate dedite allo svago: massacrarsi negli stadi durante le partite di calcio, ma anche durante i golpe, prendere il sole; fare il bagno nei colibatteri; portare i ragazzini al poligono di tiro dividendoli in due squadre, (quella che spara e quella che fa da bersaglio); giocare d'azzardo; curare il proprio pizzo con una lametta affilata, ma anche con coltelli, esplosivi, benzina e fucili, ma soprattutto sniffare la coca, anche se spesso quella giusta costava troppo. Molti morivano per overdose di tappi a corona ficcati nelle narici.
In realtà, la disoccupazione era un problema marginale, soprattutto per le ragazze, che potevano benissimo impiegarsi, dopo aver preso un bel diploma da prostituta slava. I più robusti lavoravano come negro nei campi di pelati o come pelati nei campi di concentramento per oppositori, entrambi detti piazze d'armi, perché controllati dai caporali. Altri si facevano spremere in un aranceto o lavoravano come scalpellini nelle piantagioni di caffé, per fare le scanalature sui chicchi.
Quando qualcuno riusciva a mettere da parte qualche bella diecimila dollari, gli amici gli chiedevano: "Che lavoro hai commesso?"
Nessuna possibilità negli enti pubblici, che erano privati, nei tribunali, che erano distrutti, negli appalti che erano distratti: tutto occupato dai figli, dai nipoti, dai profigli e dai pronipoti dei figli dei generi delle sorelle delle mamme del Presidente. Un'economia (anzi, un'econosua del Terribilissimo) florida, ma qualche volta anche Texas e Nuovo Messico.
I suoi ministri degli esteri, durante le visite diplomatiche a Miami o a Las Vegas, adoravano fare shopping nelle boutique, pagando con la P.38. Il loro motto era: "Facciamogliela vedere a questi arroganti! Non riusciranno a mettere in ginocchio un'industria sana come la mafia!"
L'invidia rodeva Ciro Colombiano de la Cupola, suo vero nome. Aveva tentato, in vari modi, di appropriarsi illecitamente di molte attività economiche della Repubblica del Nord, per succhiarle e distruggerle come fa la peronospora delle patate con le patate. Ma, porca miseria! gli facevano saltare in aria tutti i covi segreti: agenzie immobiliari, finanziarie, night, bische e pizzerie. Non poteva farcela, i servizi segreti del Nord erano più moderni, non avevano armi nascoste nelle borse in pizzeria, ma multinazionali delle armi nascoste in società della pizza in borsa. Questa, in ogni modo, è una storia molto complicata, che tratterò nel prossimo romanzo thrilling La Pizza nella Borsa che Puzza.
Ritornando al popolo onesto e lavoratore, la paga non era male, quel tanto che bastava per suicidarsi per non morire di fame. Molti quindi, anche nel loro piccolo, si davano da fare nel malaffare, ma i ladri uscivano solo durante la notte, preferibilmente in coppia. Rubare da soli era troppo rischioso, con tutti i delinquenti che c'erano in giro. D'altro canto, quasi tutte le famiglie lasciavano aperta la porta di casa. Non c'era nulla da prendere, ma speravano che i visitatori, nella confusione, perdessero il portafogli.
Per farla breve, dopo una guerra estenuante per il controllo del territorio, poliziotti e malviventi avevano raggiunto un accordo. Negozi, supermercati e benzinai, li avrebbero rapinati a turno. Direte voi: “Hai dimenticato le banche!” Già, i colpi in banca erano difficili, potevano permetterseli solo le imprese di trasporti. A causa dell'inflazione per spostare la refurtiva era necessario poter disporre almeno di un tir.
Si diffuse così l'abitudine di rinunciare ai contanti, in cambio di un assegno circolare non trasferibile. Una facilitazione decisa da molti istituti, con la sola clausola che i rapinatori aprissero un conto nella stessa filiale che stavano rapinando. In seguito a questa disposizione, le rapine divennero più rapide e si chiamarono rapine rapide. Era sufficiente presentarsi armati alla cassa: "Mani in alto! Questa è una ra.ra. (abbr.)! Accreditatemi tutti i risparmi dei conti 3456UI89, 369498AZ e 758292UY6!! Nessuno si muova e non accadrà niente di spiacevole!"
I delinquenti pensavano in tal modo d’essersi arricchiti ma non vedevano il becco di un quattrino.
Discrete sommette in contanti invece le tiravano su quei nuclei familiari di gente per bene che s'erano dati al commercio. "Quanto è al chilo?" chiedeva il turista furbetto "Diecimila." replicavano.
"Bene, ne vorrei mezzo."
"Eh no, caro signore, non vendiamo a tranci, deve prenderlo tutto!" sbottava il capo famiglia.
"Guardi che carne rosea, di prima qualità! E non creda che le interiora siano meno fresche: cuore, reni, polmoni, tutto eccellente!"
"C'è anche il certificato di vaccinazione dell'ufficio d'igiene, non siamo mica nel terzo mondo!" Concludeva la moglie, ammiccante.
"Va bene" sussurrava il povero cliente stordito, "lo prendo se… mi fate un piccolo sconto."
Concluso l'affare, il ricco americano si portava a casa una ventina di chili di bimbo magretto. Un filantropo. Egli avrebbe badato a compensarne la denutrizione, investendo migliaia di dollari in hamburger, patatine, latte e gelati, per vederlo rifiorire. Poi, per rifarsi delle spese sostenute, sarebbe stato costretto a rivenderne dei pezzi a qualche ragazzo miliardario bisognoso di Philadelphia.
Un commercio disgustoso direte voi.
Certo! Disonesto!
L'americano, rivendendo gli organi singolarmente, guadagnava cento volte più di quanto aveva pagato l'intero animale, senza alcun aggravio fiscale. La Repubblica del Nord non pensava a certe cose. Colombiano de la Cupola sì.
Il governo, infatti, resosi conto dell'immondo commercio, varò una severa legge per arginare la piaga che obbligava tutte le famiglie a menzionare i figli nella dichiarazione dei redditi e a versare la relativa tassa in caso di vendita.
Io voglio proprio raccontarvi la vicenda di uno di quei ragazzini poveri, scampato alla morte per smembramento. E' una storia a lieto inizio, come quella di Mosè che fu salvato dalla spada degli aguzzini dal signore. Il signore, in questo caso non era un dio ma un frate. Non so che aspetto avesse e ignoro se abbia lasciato, come l'altro signore, un testamento o due.
Per raccontare il seguito ho visionato e utilizzato il dossier dell’inchiesta, relativa a questo caso pietoso, conservato nell'archivio della polizia di Bahìaz.
Il suo nome era Totò 'A Munnezza, diminutivo che gli diedero i frati della Missione Café 'O Lece quando lo raccolsero sulla scalinata della chiesa: "Tò! Tò! 'A munnezza, disgraziati! Sti spazzini stanno sempre a fa’ 'o sciopero!” “Sbattila nel bidone!" gridò don Fabiano a don Julio.
Si accorsero che era una creatura perché di solito il pattume non piange. "Piccirillo, piccirillo..." don Julio tentò di calmarlo "... puzzi, puzzi, puzzi..." Furono a lungo indecisi se tenerlo o buttarlo, anche perché Totò, esistendo, avrebbe potuto far sorgere qualche dubbio sull'esistenza di Dio, ma soprattutto sul suo buon gusto. Non desiderando aprire una diatriba estetica e teologica con il Capo della S.A.A.R. (Somma Azienda Raccolta Rifiuti), i frati decisero di adottarlo, più per timore d'esser raccolti nel giro successivo, che per carità cristiana.
L'oratorio della Missione distribuiva vestiti usati, corredati di piattole e latte caldo inacidito. Faceva, inoltre, opera d’evangelizzazione fra diseredati, bestemmiatori, balordi e violenti delle zone limitrofe.
L'Opera era retta, anche in curva, da don Fabiano Capatosta, detto Capa 'E Ferro: "Bambino! Sei o non sei un soldato di Dio?!"
"Sì don Fabiano."
"E come mai non vieni più ai campeggi paramilitari catechistici?!"
"Gli integralisti islamici pagano meglio".
I suoi metodi erano alquanto sbrigativi con i miscredenti; basti ricordare, quando assoldò alcuni buttadentro, reduci di Pigalle, che afferravano i passanti per il bavero costringendoli ad entrare in chiesa per assistere alla messa. Li aveva soprannominati Guardie del Corpo di Cristo.
Così il giorno del battesimo di Totò, il tempio era stracolmo. Pur avendo trascorso un lungo periodo fra i tagliatori di teste del Borneo, don Fabiano Capa 'E Ferro non poteva trattenere il vomito, guardando la faccia del neonato. Molti parrocchiani fuggirono impauriti, urlando a gran voce di non voler assistere ad un esorcismo, altri, meno impressionabili, gli domandarono se fosse certo che su Marte sono buoni cristiani. Don Fabiano non badò alle superstizioni e battezzò eroicamente Totò, seppur serrando con forza gli occhi. Il gesto fu ampio, energico e nervoso, per questo l'acqua benedetta schizzò troppo lontana dal bersaglio e andò a colpire, in piena nuca, un testimone di Geova di passaggio, che giurò vendetta: il citofono del monastero suonò per cinque mesi di seguito… alle tre del mattino.
Toto 'A Munnezza, nonostante l'aspetto fisico non certo rassicurante, dimostrò un'intelligenza sorprendente. Imparò subito a leggere, anche ad alta voce, ma essendo balbuziente preferiva scrivere: il suo primo pensierino occupò tre lavagne. Cresceva in cultura eppure la sua bruttezza non gli dava tregua, anche in confessione: "Padre, ho peccato, sono vivo."
"Nessuno è perfetto, figliolo. Due Pater-Ave-Gloria e fatti una tequila."
"Ma... ma... padre, io ho nove anni!"
"Scusa, non ti avevo guardato bene. E' vero, Dio, fattene due!"
Eppure, nel piccolo oratorio della Missione, qualche amichetto lo trovò. Un sentimento di pietà misto a simpatia spingeva gli altri ragazzetti ad accoglierlo tra loro. Miracolosamente la sua mitezza riusciva persino a placare le risse: "Bastardo, ridammi le figurine e la pistola!"
"Prova a riprendertele, figlio di puttana!"
"Ti ficco nel culo le birille, a due a due, frocio fottuto!"
"Che teste di cazzo, smettiamola di pestarci, guarda Totò com'è tranquillo, sta studiando come un angelo, aiutiamolo, diamogli una bella ripassata!"
Uno spirito contemplativo non adatto a quella compagnia violenta. Don Fabiano tentò in tutti i modi di colmare la sua solitudine. Per due anni Totò prese lezioni d’organo, alla fine gli regalarono anche i tasti. Lo misero a servire la messa. "Totò, cosa fai con quel budino?"
"Pane e vino mi sembrava un po’ poco. Ho preparato il dessert."
Ultimati gli undici anni era ormai un ometto. Per il suo compleanno gli regalarono un oggetto che desiderava da tanto tempo: dimostrava sì e no venticinque anni, dopo essersi rasato. Purtroppo non era soltanto bruttino ma aveva anche la pelle sensibile, ma così sensibile che al mare, durante un'eclissi di sole, gli venne l'abbronzatura a pois.
Un pomeriggio di primavera il miracolo; una ragazzina volle fare una passeggiata romantica con lui: "Non posso crederci," disse felice Totò "oggi mi sento un angelo!"
"E allora vola! Vola, angioletto mio!" e prima di baciarlo lo spinse giù dal ponte.
Totò non se la prese per quella botta, anzi si addormentò perché nel letto del torrente non c'era acqua.
Al risveglio pensò: "Mi vendicherò di quest’infame destino avverso, schifoso e ripugnante, quando sarò grande!" Ma ciò non avvenne, ché a diciotto anni non superava il metro e quaranta d'altezza. Invece, raggiunte le diciotto primavere, i missionari decisero fosse giunto il momento di cacciarlo, ma siccome non avevano una buona mira, lo mancarono di un soffio.
Totò fuggì correndo, e corse, corse, corse, corse e cadde, e ricorse a perdifiato nella notte, con un occhio colmo di lacrime e quello di vetro visibilmente appannato.
Stanco, ansimante, trafelato, sempre più brutto, entrò nella buia foresta come Biancaneve e si ritrovò in una radura, circondato da sette giganti immondi: era capitato nel bel mezzo di un rito vudù. Vedendolo lo stregone esclamò: "Cacchio, allora funziona!" Si accorse subito d'aver sbagliato ad interpretare i segni, o meglio le occhiaie del destino, di cui Totò era alquanto provvisto. Non la si fa agli stregoni, quelli per certe cose hanno malocchio.
"Mi sono sbagliato,” disse "gli zombie hanno uno sguardo più intelligente."
Volle interrogarlo, nella magica ed arcaica lingua del nord druidico e federato, alitandogli in faccia una tempesta d’improperi che sapeva di Barbera, cipolle e trementina.
Totò non capì una sola parola, ma senza scomporsi disse: "Aaaaah! Aiutooooo!!" Lo sciamano si tolse la maschera di legno, finemente intagliato e cesellato, raffigurante Alberto da Giussano, e subito il marmocchio si tranquillizzò.
Il sant’uomo non era un primitivo, bensì un noto docente di sciamanesimo lombardo presso la Facoltà d’Occultistica dell'Università di Clusone (BG). Un grande spiritista, reggeva fino a tre litri di grappa al giorno! Dissidente della setta fisioterapica della Val Brembana, con la sola imposizione delle mani aveva unto, irrimediabilmente, centinaia di giacche firmate ai leghisti.
Esperto di magia tantrica laburista, conosceva una litania micidiale, il segreto dell'artifizio rosso, che aveva rovinato migliaia di piccoli imprenditori. Faceva più o meno così: "Stregoni avanti gran partito, noi siamo degli ammaliator..."
Era inoltre dietologo e sassoterapista di fama: le sue pozioni gastronomiche comparivano in tutto il mondo mistico, impiegate con profitto nelle cucine delle feste rituali, quali i sabba dell'Unità. Quella più nota, detta "costina e salamella", utilizzava come addensante un ingrediente infernale, la polenta di Carrara, anch’oggi usata in edilizia al posto dell'obsoleto cemento a presa rapida, che è molto più digeribile. Totò si sentiva spaesato, spossato e seccato ma grazie allo choc la sua bruttezza rifulgeva in tutto il suo orrore. Lo sciamano intuì subito il business e lo fece amico, affidandogli la direzione della sua scuola di recitazione e portamento per mostri che vogliono fare gli attori nei film del terrore.
Ad arginare il diffondersi del morbo mandarono i vigili del fuoco, che incendiarono migliaia di baracche, fortunatamente prima che la gente potesse abbandonarle per invadere la city con i suoi splendidi grattacieli d’acciaio e cristallo, in puro stile statunitense. Ai più deboli, vecchi e bambini, ovviamente salì la temperatura oltre i 40°, anche se rapidamente si riabbassò, grazie al provvidenziale intervento di un tifone di passaggio, battezzato El Toreador de las bolas.
Il Ministero degli Interni e quello della Sanità, che erano la stessa persona, plaudirono all'operazione antiterroristica definendola, senza mezzi termini, puro atto di clemenza, visto che i rivoltosi, o meglio i rivoltanti, durante il censimento alla domanda: - Nato? avevano risposto: - Purtroppo.
Emergenza sanitaria a parte, il problema della povertà era molto sentito dal Presidente: "Il popolo ha fame? Facciamolo mangiare... dagli alligatori!"
Il Capo, detto Il Terribilissimo, aveva acquistato a pezzi la sua Repubblica durante i saldi praticati dalle altre nazioni in difficoltà, pagando in coca per far dispetto alla Pepsi. Il Terribilissimo era un uomo terribile, lo dice l’aggettivo stesso. Narra la leggenda che non lo portò la cicogna ma l'avvoltoio.
In realtà nacque all'improvviso durante un allagamento dell'appartamento dei suoi genitori, che erano decisamente tirchi: così ne approfittarono.
Al Terribilissimo la faccenda non piacque neanche un po’ e per ringraziare l'improvvisato ostetrico che lo aveva portato al mondo risucchiandolo con una ventosa da lavandino, gli staccò due dita con un morso. L'uomo, stupito e sanguinante, disse alla madre: "Signora, per partorire non avrebbe dovuto chiamare un idraulico ma un accalappiacani."
Il Terribilissimo tuonava alla radio, rituonava sui giornali e rirituonava in televisione: "Siamo poveri ma fieri e felici! La gente nostra è la nostra ricchezza, la gente nostra è viva e vegetale, la gente nostra è mia.
Noi siamo gli eredi della civiltà con la M maiuscola che odora forte: i conquistadores, l'inquisizione, i turchi e i saladini, i Borboni, e più indietro ancora la Magna Grecia, più magna che Grecia. Governarvi non è difficile, è inutile. Poi una bella parata militare, la pubblicità della Pummarola Fuego A Volontà e infine un bel cartone, non animato ma riciclato, dove i bimbi si accomodavano felici per fare la nanna sotto un ponte, mentre le melodiche ugole del bel canto popolare, intonavano canzoni di questa fatta:
Dal Vesuvio al Pan di Zucchero
qui la vita è nu sollucchero,
samba, pizza e tarantella,
la giornata passa bella,
na Marsala e na Batida
e la caca è mui florìda:
tortias, tortias e fiaschi di gin,
Pelé sei pallido come Tochigno,
nu poco de vigno e del cili col rum!
Insomma, un popolo felice che adorava un solo dio, Maradona Seduto, e passava intere giornate dedite allo svago: massacrarsi negli stadi durante le partite di calcio, ma anche durante i golpe, prendere il sole; fare il bagno nei colibatteri; portare i ragazzini al poligono di tiro dividendoli in due squadre, (quella che spara e quella che fa da bersaglio); giocare d'azzardo; curare il proprio pizzo con una lametta affilata, ma anche con coltelli, esplosivi, benzina e fucili, ma soprattutto sniffare la coca, anche se spesso quella giusta costava troppo. Molti morivano per overdose di tappi a corona ficcati nelle narici.
In realtà, la disoccupazione era un problema marginale, soprattutto per le ragazze, che potevano benissimo impiegarsi, dopo aver preso un bel diploma da prostituta slava. I più robusti lavoravano come negro nei campi di pelati o come pelati nei campi di concentramento per oppositori, entrambi detti piazze d'armi, perché controllati dai caporali. Altri si facevano spremere in un aranceto o lavoravano come scalpellini nelle piantagioni di caffé, per fare le scanalature sui chicchi.
Quando qualcuno riusciva a mettere da parte qualche bella diecimila dollari, gli amici gli chiedevano: "Che lavoro hai commesso?"
Nessuna possibilità negli enti pubblici, che erano privati, nei tribunali, che erano distrutti, negli appalti che erano distratti: tutto occupato dai figli, dai nipoti, dai profigli e dai pronipoti dei figli dei generi delle sorelle delle mamme del Presidente. Un'economia (anzi, un'econosua del Terribilissimo) florida, ma qualche volta anche Texas e Nuovo Messico.
I suoi ministri degli esteri, durante le visite diplomatiche a Miami o a Las Vegas, adoravano fare shopping nelle boutique, pagando con la P.38. Il loro motto era: "Facciamogliela vedere a questi arroganti! Non riusciranno a mettere in ginocchio un'industria sana come la mafia!"
L'invidia rodeva Ciro Colombiano de la Cupola, suo vero nome. Aveva tentato, in vari modi, di appropriarsi illecitamente di molte attività economiche della Repubblica del Nord, per succhiarle e distruggerle come fa la peronospora delle patate con le patate. Ma, porca miseria! gli facevano saltare in aria tutti i covi segreti: agenzie immobiliari, finanziarie, night, bische e pizzerie. Non poteva farcela, i servizi segreti del Nord erano più moderni, non avevano armi nascoste nelle borse in pizzeria, ma multinazionali delle armi nascoste in società della pizza in borsa. Questa, in ogni modo, è una storia molto complicata, che tratterò nel prossimo romanzo thrilling La Pizza nella Borsa che Puzza.
Ritornando al popolo onesto e lavoratore, la paga non era male, quel tanto che bastava per suicidarsi per non morire di fame. Molti quindi, anche nel loro piccolo, si davano da fare nel malaffare, ma i ladri uscivano solo durante la notte, preferibilmente in coppia. Rubare da soli era troppo rischioso, con tutti i delinquenti che c'erano in giro. D'altro canto, quasi tutte le famiglie lasciavano aperta la porta di casa. Non c'era nulla da prendere, ma speravano che i visitatori, nella confusione, perdessero il portafogli.
Per farla breve, dopo una guerra estenuante per il controllo del territorio, poliziotti e malviventi avevano raggiunto un accordo. Negozi, supermercati e benzinai, li avrebbero rapinati a turno. Direte voi: “Hai dimenticato le banche!” Già, i colpi in banca erano difficili, potevano permetterseli solo le imprese di trasporti. A causa dell'inflazione per spostare la refurtiva era necessario poter disporre almeno di un tir.
Si diffuse così l'abitudine di rinunciare ai contanti, in cambio di un assegno circolare non trasferibile. Una facilitazione decisa da molti istituti, con la sola clausola che i rapinatori aprissero un conto nella stessa filiale che stavano rapinando. In seguito a questa disposizione, le rapine divennero più rapide e si chiamarono rapine rapide. Era sufficiente presentarsi armati alla cassa: "Mani in alto! Questa è una ra.ra. (abbr.)! Accreditatemi tutti i risparmi dei conti 3456UI89, 369498AZ e 758292UY6!! Nessuno si muova e non accadrà niente di spiacevole!"
I delinquenti pensavano in tal modo d’essersi arricchiti ma non vedevano il becco di un quattrino.
Discrete sommette in contanti invece le tiravano su quei nuclei familiari di gente per bene che s'erano dati al commercio. "Quanto è al chilo?" chiedeva il turista furbetto "Diecimila." replicavano.
"Bene, ne vorrei mezzo."
"Eh no, caro signore, non vendiamo a tranci, deve prenderlo tutto!" sbottava il capo famiglia.
"Guardi che carne rosea, di prima qualità! E non creda che le interiora siano meno fresche: cuore, reni, polmoni, tutto eccellente!"
"C'è anche il certificato di vaccinazione dell'ufficio d'igiene, non siamo mica nel terzo mondo!" Concludeva la moglie, ammiccante.
"Va bene" sussurrava il povero cliente stordito, "lo prendo se… mi fate un piccolo sconto."
Concluso l'affare, il ricco americano si portava a casa una ventina di chili di bimbo magretto. Un filantropo. Egli avrebbe badato a compensarne la denutrizione, investendo migliaia di dollari in hamburger, patatine, latte e gelati, per vederlo rifiorire. Poi, per rifarsi delle spese sostenute, sarebbe stato costretto a rivenderne dei pezzi a qualche ragazzo miliardario bisognoso di Philadelphia.
Un commercio disgustoso direte voi.
Certo! Disonesto!
L'americano, rivendendo gli organi singolarmente, guadagnava cento volte più di quanto aveva pagato l'intero animale, senza alcun aggravio fiscale. La Repubblica del Nord non pensava a certe cose. Colombiano de la Cupola sì.
Il governo, infatti, resosi conto dell'immondo commercio, varò una severa legge per arginare la piaga che obbligava tutte le famiglie a menzionare i figli nella dichiarazione dei redditi e a versare la relativa tassa in caso di vendita.
Io voglio proprio raccontarvi la vicenda di uno di quei ragazzini poveri, scampato alla morte per smembramento. E' una storia a lieto inizio, come quella di Mosè che fu salvato dalla spada degli aguzzini dal signore. Il signore, in questo caso non era un dio ma un frate. Non so che aspetto avesse e ignoro se abbia lasciato, come l'altro signore, un testamento o due.
Per raccontare il seguito ho visionato e utilizzato il dossier dell’inchiesta, relativa a questo caso pietoso, conservato nell'archivio della polizia di Bahìaz.
Il suo nome era Totò 'A Munnezza, diminutivo che gli diedero i frati della Missione Café 'O Lece quando lo raccolsero sulla scalinata della chiesa: "Tò! Tò! 'A munnezza, disgraziati! Sti spazzini stanno sempre a fa’ 'o sciopero!” “Sbattila nel bidone!" gridò don Fabiano a don Julio.
Si accorsero che era una creatura perché di solito il pattume non piange. "Piccirillo, piccirillo..." don Julio tentò di calmarlo "... puzzi, puzzi, puzzi..." Furono a lungo indecisi se tenerlo o buttarlo, anche perché Totò, esistendo, avrebbe potuto far sorgere qualche dubbio sull'esistenza di Dio, ma soprattutto sul suo buon gusto. Non desiderando aprire una diatriba estetica e teologica con il Capo della S.A.A.R. (Somma Azienda Raccolta Rifiuti), i frati decisero di adottarlo, più per timore d'esser raccolti nel giro successivo, che per carità cristiana.
L'oratorio della Missione distribuiva vestiti usati, corredati di piattole e latte caldo inacidito. Faceva, inoltre, opera d’evangelizzazione fra diseredati, bestemmiatori, balordi e violenti delle zone limitrofe.
L'Opera era retta, anche in curva, da don Fabiano Capatosta, detto Capa 'E Ferro: "Bambino! Sei o non sei un soldato di Dio?!"
"Sì don Fabiano."
"E come mai non vieni più ai campeggi paramilitari catechistici?!"
"Gli integralisti islamici pagano meglio".
I suoi metodi erano alquanto sbrigativi con i miscredenti; basti ricordare, quando assoldò alcuni buttadentro, reduci di Pigalle, che afferravano i passanti per il bavero costringendoli ad entrare in chiesa per assistere alla messa. Li aveva soprannominati Guardie del Corpo di Cristo.
Così il giorno del battesimo di Totò, il tempio era stracolmo. Pur avendo trascorso un lungo periodo fra i tagliatori di teste del Borneo, don Fabiano Capa 'E Ferro non poteva trattenere il vomito, guardando la faccia del neonato. Molti parrocchiani fuggirono impauriti, urlando a gran voce di non voler assistere ad un esorcismo, altri, meno impressionabili, gli domandarono se fosse certo che su Marte sono buoni cristiani. Don Fabiano non badò alle superstizioni e battezzò eroicamente Totò, seppur serrando con forza gli occhi. Il gesto fu ampio, energico e nervoso, per questo l'acqua benedetta schizzò troppo lontana dal bersaglio e andò a colpire, in piena nuca, un testimone di Geova di passaggio, che giurò vendetta: il citofono del monastero suonò per cinque mesi di seguito… alle tre del mattino.
Toto 'A Munnezza, nonostante l'aspetto fisico non certo rassicurante, dimostrò un'intelligenza sorprendente. Imparò subito a leggere, anche ad alta voce, ma essendo balbuziente preferiva scrivere: il suo primo pensierino occupò tre lavagne. Cresceva in cultura eppure la sua bruttezza non gli dava tregua, anche in confessione: "Padre, ho peccato, sono vivo."
"Nessuno è perfetto, figliolo. Due Pater-Ave-Gloria e fatti una tequila."
"Ma... ma... padre, io ho nove anni!"
"Scusa, non ti avevo guardato bene. E' vero, Dio, fattene due!"
Eppure, nel piccolo oratorio della Missione, qualche amichetto lo trovò. Un sentimento di pietà misto a simpatia spingeva gli altri ragazzetti ad accoglierlo tra loro. Miracolosamente la sua mitezza riusciva persino a placare le risse: "Bastardo, ridammi le figurine e la pistola!"
"Prova a riprendertele, figlio di puttana!"
"Ti ficco nel culo le birille, a due a due, frocio fottuto!"
"Che teste di cazzo, smettiamola di pestarci, guarda Totò com'è tranquillo, sta studiando come un angelo, aiutiamolo, diamogli una bella ripassata!"
Uno spirito contemplativo non adatto a quella compagnia violenta. Don Fabiano tentò in tutti i modi di colmare la sua solitudine. Per due anni Totò prese lezioni d’organo, alla fine gli regalarono anche i tasti. Lo misero a servire la messa. "Totò, cosa fai con quel budino?"
"Pane e vino mi sembrava un po’ poco. Ho preparato il dessert."
Ultimati gli undici anni era ormai un ometto. Per il suo compleanno gli regalarono un oggetto che desiderava da tanto tempo: dimostrava sì e no venticinque anni, dopo essersi rasato. Purtroppo non era soltanto bruttino ma aveva anche la pelle sensibile, ma così sensibile che al mare, durante un'eclissi di sole, gli venne l'abbronzatura a pois.
Un pomeriggio di primavera il miracolo; una ragazzina volle fare una passeggiata romantica con lui: "Non posso crederci," disse felice Totò "oggi mi sento un angelo!"
"E allora vola! Vola, angioletto mio!" e prima di baciarlo lo spinse giù dal ponte.
Totò non se la prese per quella botta, anzi si addormentò perché nel letto del torrente non c'era acqua.
Al risveglio pensò: "Mi vendicherò di quest’infame destino avverso, schifoso e ripugnante, quando sarò grande!" Ma ciò non avvenne, ché a diciotto anni non superava il metro e quaranta d'altezza. Invece, raggiunte le diciotto primavere, i missionari decisero fosse giunto il momento di cacciarlo, ma siccome non avevano una buona mira, lo mancarono di un soffio.
Totò fuggì correndo, e corse, corse, corse, corse e cadde, e ricorse a perdifiato nella notte, con un occhio colmo di lacrime e quello di vetro visibilmente appannato.
Stanco, ansimante, trafelato, sempre più brutto, entrò nella buia foresta come Biancaneve e si ritrovò in una radura, circondato da sette giganti immondi: era capitato nel bel mezzo di un rito vudù. Vedendolo lo stregone esclamò: "Cacchio, allora funziona!" Si accorse subito d'aver sbagliato ad interpretare i segni, o meglio le occhiaie del destino, di cui Totò era alquanto provvisto. Non la si fa agli stregoni, quelli per certe cose hanno malocchio.
"Mi sono sbagliato,” disse "gli zombie hanno uno sguardo più intelligente."
Volle interrogarlo, nella magica ed arcaica lingua del nord druidico e federato, alitandogli in faccia una tempesta d’improperi che sapeva di Barbera, cipolle e trementina.
Totò non capì una sola parola, ma senza scomporsi disse: "Aaaaah! Aiutooooo!!" Lo sciamano si tolse la maschera di legno, finemente intagliato e cesellato, raffigurante Alberto da Giussano, e subito il marmocchio si tranquillizzò.
Il sant’uomo non era un primitivo, bensì un noto docente di sciamanesimo lombardo presso la Facoltà d’Occultistica dell'Università di Clusone (BG). Un grande spiritista, reggeva fino a tre litri di grappa al giorno! Dissidente della setta fisioterapica della Val Brembana, con la sola imposizione delle mani aveva unto, irrimediabilmente, centinaia di giacche firmate ai leghisti.
Esperto di magia tantrica laburista, conosceva una litania micidiale, il segreto dell'artifizio rosso, che aveva rovinato migliaia di piccoli imprenditori. Faceva più o meno così: "Stregoni avanti gran partito, noi siamo degli ammaliator..."
Era inoltre dietologo e sassoterapista di fama: le sue pozioni gastronomiche comparivano in tutto il mondo mistico, impiegate con profitto nelle cucine delle feste rituali, quali i sabba dell'Unità. Quella più nota, detta "costina e salamella", utilizzava come addensante un ingrediente infernale, la polenta di Carrara, anch’oggi usata in edilizia al posto dell'obsoleto cemento a presa rapida, che è molto più digeribile. Totò si sentiva spaesato, spossato e seccato ma grazie allo choc la sua bruttezza rifulgeva in tutto il suo orrore. Lo sciamano intuì subito il business e lo fece amico, affidandogli la direzione della sua scuola di recitazione e portamento per mostri che vogliono fare gli attori nei film del terrore.