LA REGINA DEL SELF SERVICE
Qui debutta una memoria troppo languida che profuma di vendetta retroattiva.
La prima volta che la vide aveva gli occhi verdi, non cambiarono colore nel corso degli anni, ma in quella lontana estate erano verdi in modo assoluto. Era una donnina perfetta, tutta occhi, gambe vibranti e biondi capelli lunghi, tanti, folti, unici. L’amava, come si poteva amare nell’adolescenza. Totalmente, con un desiderio inesorabile. Era un’incantevole bambina, molto seducente, più simile ad una pin-up in minigonna che ad un sogno. La reginetta del quartiere, la principessina, poteva chiedere tutto |
alla sua corte di ragazzini prossimi alla pubertà: stupidi sudditi, in lottalotta per conquistare le sue grazie, come rozzi duellanti, sporchi barbari dei suburbi con le ginocchia sbucciate, punteggiate di croste sanguinolente.
L’estate gli aveva portato questo vizio, Adriana, dal quale nulla poteva distoglierlo. “Deridimi ma parlami, stringimi tra le braccia: noi siamo bimbi eccitabili, stregati dalla stessa esitazione…”
Lui, a quindici anni, aveva avvolto attorno ai suoi sentimenti un’anima da geometra triste in calzoni corti. Non era capace di fare magie psicologiche per alterare la sua psiche; non sapeva, non poteva, mescolarsi alle turbe scalpitanti, per starle vicino e scambiare parole, sguardi… gli atri nanetti malefici la prendevano per mano o sottobraccio, facevano giochi stupidi, sull’umido asfalto dopo il temporale, pur di stare con lei per toccarla o godere un suo magico sorriso. Bianchissimo. Luminoso come le stelle.
Loro, invece, potevano odorarla, giocando a nascondino, alla cavallina, a palla avvelenata. I ragazzi del 1957 erano dei colonialisti che conoscevano solo la legge dei corpi sudati, del pallone, dei cazzotti e non capivano la raffinata poesia della seta. Adriana: dolce dea profumata, dalla pelle bianchissima. Non riuscire ad avvincerla era malinconico, come la fine dell’avanspettacolo, quando l’orchestra scalcinata di Andrea Savio dava fiato alla passerella delle ballerine in bustino e calze a rete. Era una tristezza che ben conosceva, poiché gia a sei anni i suoi genitori lo portavano all’avanspettacolo. Un mondo straordinario, più bello del circo e del luna park.
Spasimando per Adriana, ricordò d’avere in un cassetto un oggetto che gliela ricordava. Era una foto smaltata, di gran formato, completa d’autografo, che una soubrette gli aveva regalato da bambino.
Ricordò quella sera, quando l’aveva ipnotizzato, trascinando la sua fantasia in paradisi erotici troppo adulti per un ragazzino. L’istantanea in bianco e nero, lucida e suadente, spiccava tra le altre sul tabellone, nell’atrio del cine teatro Adua. Ricordò quanto l’aveva desiderata. La giovane coppia di ballerini fantasisti, Jimmy D’Alcatraz ed Eva Gemelli, sorrideva in abito da sera, nel 1961: visi ingenui, sopra lustrini e futuro.
Sorrisi proletari di periferia, che guardavano a Hollywood, ma speravano in Macario, Dapporto e Rascel.
Anelavano d’abbandonare in fretta le pizzerie, i camerini gelidi polverosi dell’avanspettacolo, i tram sferraglianti per l’ultima corsa, per barattarli con i fasti dei teatri di Milano, Roma e Napoli.
Certo, desideravano l’Olimpo del successo: il tranquillo pellegrinare dei forestieri, una semplice tristezza, fatta d’alberghi, ristoranti notturni, treni, navi, corriere e paracarri. Ambivano a contratti milionari, a dei bei cachet, alla solitudine, sulle tavole di palchi lontani: applausi, ovazioni, bis, bis, coreografiche luccicanti, passerelle, allegre marcette, canzoni romantiche, barzellette e sketch di comici insolventi, sempre al verde.
La foto smaltata non sapeva che piega avrebbe potuto prendere il futuro, ma sorrideva, ancorata alla speranza della gioventù, come sorrideva ancora Adriana. La rivide per caso al selfservice, in una sera d’inverno umida e piovosa. I suoi occhi verdi non brillavano più come allora, ma sorrise egualmente domandandogli se preferiva le lasagne o gli spaghetti, e… sperò che non la riconoscesse, il suo sguardo decollò obliquamente verso Plutone, ma il rossore di quelle gote che lui aveva tanto desiderato, non riuscì a nascondere il suo imbarazzo. Si era appesantita, la necessità stava minando l’angelica bambina di un tempo, ma lei era ancora una sovrana… la regina del self service. Notò come il cuoco e i colleghi la guardavano, anche se aveva la fede nuziale al dito.
Dopo Adriana, si rese conto di quanto fossero importanti le signorine nella vita di un sognatore passionale. Barattò la timidezza con una controllata disponibilità, ma non riusciva ad impegnarsi ufficialmente con una donna, per uscire la domenica con gli amici e le relative fidanzate. Agli occhi del mondo era ancora e sempre un misantropo selvatico, senza arte né parte. Stavano diventando veramente noiosi, insistenti, pettegoli: gli spiegavano che a trenta anni non poteva continuare a vivere nel passato; meglio sposarsi, per costruirsi un futuro con una femmina gentile. Lui rispondeva sempre che gli bastavano un lavoro e una casa ospitale, dove ogni sera lo aspettavano le sue sorelline venticinquenni. Colleghi e conoscenti obiettavano che, a quell’età, abitare in famiglia non poteva sostituire un matrimonio ben riuscito.
Continuavano a non farsi i fatti loro, descrivendo la gioia della legale convivenza, con dovizia di particolari: piedi freddi, scaldati a vicenda nel letto serale, polpettoni e gite domenicali con pargoli ululanti, bollette da pagare, la spesa al mercato… Lui non voleva suscitare invidia e taceva, perché l’invidia é capace di dare l’assalto al paradiso, per metterlo a ferro e fuoco. Li lasciava dire e trattenendo carnose risate pensava: “Mi farebbero a pezzi se sapessero che le sorelline con cui abito non sono… mie.”
Avevano gli occhi verdi. Erano donnine perfette, tutte occhi, gambe vibranti e biondi capelli lunghi, fitti, insuperabili. Le amava entrambe e loro lo amavano, come sempre si ama il ritorno dell’adolescenza. Totalmente, con una passione triangolare indescrivibile, un desiderio irremovibile, spietato, possessivo. Non gli importava quanto avrebbe potuto durare quella relazione squilibrata, da manuale di psicoanalisi. Era la sua vendetta nei confronti d’Adriana e del destino che avevano preso a scudisciate la sua pubertà. Lui, a quindici anni, avvolse attorno ai suoi sentimenti un’anima da geometra triste in calzoni corti, ma poi disse basta!
Le due sorelline incantevoli, inebrianti, lo coccolavano come un duca, erano più simili a soubrette del varietà che ad un sogno impossibile: questo bastava.
L’estate gli aveva portato questo vizio, Adriana, dal quale nulla poteva distoglierlo. “Deridimi ma parlami, stringimi tra le braccia: noi siamo bimbi eccitabili, stregati dalla stessa esitazione…”
Lui, a quindici anni, aveva avvolto attorno ai suoi sentimenti un’anima da geometra triste in calzoni corti. Non era capace di fare magie psicologiche per alterare la sua psiche; non sapeva, non poteva, mescolarsi alle turbe scalpitanti, per starle vicino e scambiare parole, sguardi… gli atri nanetti malefici la prendevano per mano o sottobraccio, facevano giochi stupidi, sull’umido asfalto dopo il temporale, pur di stare con lei per toccarla o godere un suo magico sorriso. Bianchissimo. Luminoso come le stelle.
Loro, invece, potevano odorarla, giocando a nascondino, alla cavallina, a palla avvelenata. I ragazzi del 1957 erano dei colonialisti che conoscevano solo la legge dei corpi sudati, del pallone, dei cazzotti e non capivano la raffinata poesia della seta. Adriana: dolce dea profumata, dalla pelle bianchissima. Non riuscire ad avvincerla era malinconico, come la fine dell’avanspettacolo, quando l’orchestra scalcinata di Andrea Savio dava fiato alla passerella delle ballerine in bustino e calze a rete. Era una tristezza che ben conosceva, poiché gia a sei anni i suoi genitori lo portavano all’avanspettacolo. Un mondo straordinario, più bello del circo e del luna park.
Spasimando per Adriana, ricordò d’avere in un cassetto un oggetto che gliela ricordava. Era una foto smaltata, di gran formato, completa d’autografo, che una soubrette gli aveva regalato da bambino.
Ricordò quella sera, quando l’aveva ipnotizzato, trascinando la sua fantasia in paradisi erotici troppo adulti per un ragazzino. L’istantanea in bianco e nero, lucida e suadente, spiccava tra le altre sul tabellone, nell’atrio del cine teatro Adua. Ricordò quanto l’aveva desiderata. La giovane coppia di ballerini fantasisti, Jimmy D’Alcatraz ed Eva Gemelli, sorrideva in abito da sera, nel 1961: visi ingenui, sopra lustrini e futuro.
Sorrisi proletari di periferia, che guardavano a Hollywood, ma speravano in Macario, Dapporto e Rascel.
Anelavano d’abbandonare in fretta le pizzerie, i camerini gelidi polverosi dell’avanspettacolo, i tram sferraglianti per l’ultima corsa, per barattarli con i fasti dei teatri di Milano, Roma e Napoli.
Certo, desideravano l’Olimpo del successo: il tranquillo pellegrinare dei forestieri, una semplice tristezza, fatta d’alberghi, ristoranti notturni, treni, navi, corriere e paracarri. Ambivano a contratti milionari, a dei bei cachet, alla solitudine, sulle tavole di palchi lontani: applausi, ovazioni, bis, bis, coreografiche luccicanti, passerelle, allegre marcette, canzoni romantiche, barzellette e sketch di comici insolventi, sempre al verde.
La foto smaltata non sapeva che piega avrebbe potuto prendere il futuro, ma sorrideva, ancorata alla speranza della gioventù, come sorrideva ancora Adriana. La rivide per caso al selfservice, in una sera d’inverno umida e piovosa. I suoi occhi verdi non brillavano più come allora, ma sorrise egualmente domandandogli se preferiva le lasagne o gli spaghetti, e… sperò che non la riconoscesse, il suo sguardo decollò obliquamente verso Plutone, ma il rossore di quelle gote che lui aveva tanto desiderato, non riuscì a nascondere il suo imbarazzo. Si era appesantita, la necessità stava minando l’angelica bambina di un tempo, ma lei era ancora una sovrana… la regina del self service. Notò come il cuoco e i colleghi la guardavano, anche se aveva la fede nuziale al dito.
Dopo Adriana, si rese conto di quanto fossero importanti le signorine nella vita di un sognatore passionale. Barattò la timidezza con una controllata disponibilità, ma non riusciva ad impegnarsi ufficialmente con una donna, per uscire la domenica con gli amici e le relative fidanzate. Agli occhi del mondo era ancora e sempre un misantropo selvatico, senza arte né parte. Stavano diventando veramente noiosi, insistenti, pettegoli: gli spiegavano che a trenta anni non poteva continuare a vivere nel passato; meglio sposarsi, per costruirsi un futuro con una femmina gentile. Lui rispondeva sempre che gli bastavano un lavoro e una casa ospitale, dove ogni sera lo aspettavano le sue sorelline venticinquenni. Colleghi e conoscenti obiettavano che, a quell’età, abitare in famiglia non poteva sostituire un matrimonio ben riuscito.
Continuavano a non farsi i fatti loro, descrivendo la gioia della legale convivenza, con dovizia di particolari: piedi freddi, scaldati a vicenda nel letto serale, polpettoni e gite domenicali con pargoli ululanti, bollette da pagare, la spesa al mercato… Lui non voleva suscitare invidia e taceva, perché l’invidia é capace di dare l’assalto al paradiso, per metterlo a ferro e fuoco. Li lasciava dire e trattenendo carnose risate pensava: “Mi farebbero a pezzi se sapessero che le sorelline con cui abito non sono… mie.”
Avevano gli occhi verdi. Erano donnine perfette, tutte occhi, gambe vibranti e biondi capelli lunghi, fitti, insuperabili. Le amava entrambe e loro lo amavano, come sempre si ama il ritorno dell’adolescenza. Totalmente, con una passione triangolare indescrivibile, un desiderio irremovibile, spietato, possessivo. Non gli importava quanto avrebbe potuto durare quella relazione squilibrata, da manuale di psicoanalisi. Era la sua vendetta nei confronti d’Adriana e del destino che avevano preso a scudisciate la sua pubertà. Lui, a quindici anni, avvolse attorno ai suoi sentimenti un’anima da geometra triste in calzoni corti, ma poi disse basta!
Le due sorelline incantevoli, inebrianti, lo coccolavano come un duca, erano più simili a soubrette del varietà che ad un sogno impossibile: questo bastava.