Il Major. Era il più audace e prezioso cinematografo della Barriera di Milano: un gioiello dell’intrattenimento, che splendeva su Corso Giulio Cesare, al numero civico 105.
Davanti al locale, riposava un giardinetto con poche panchine, circondate da piante traboccanti di foglie, nei mesi estivi. La modesta aiuola, durante la calura, era l’asilo di giovanastri e pensionati che sudando, fumando, raccontando storie improbabili e aspettando ragazze, non potevano fare a meno di lanciare sguardi affascinati a quell’insegna corsiva, di un giallo squillante come una saetta. |
Negli anni '60 era il primo segno di moderna eleganza, per chi giungeva dalle autostrade, grazie al suo inconfondibile stile marmoreo post fascista. Gli abitanti del quartiere ne furono orgogliosi, quando nel 1954 fu inaugurato. Si sentivano obbligati, nei confronti dei fratelli Maggiora, che avevano trapianto un pezzetto di Hollywood a Torino, per offrire film di prima visione in periferia, poche settimane dopo la loro uscita in centro città. La suggestione più sensuale del Major, dopo l’insegna, erano le grandi porte di cristallo, adorne di preziosi maniglioni d’ottone pieno, con bassorilievi raffiguranti menadi seminude, danzanti. Spingendoli, si entrava nel foyer, felici di poter calpestare quei pavimenti lucidi di marmo marrone, striato di rosa e bianco; che cosa importava se il biglietto d’ingresso costava qualche lira in più, rispetto agli altri cinema del quartiere, Zenit, Nord, Palermo, Sociale, Adua, Brescia, Aurora? E che dire del Pidocchini del Regio Parco?! Ne valeva la pena, per insinuarsi in quel tempio pagano delle meraviglie, che da sole ripagavano la spesa fatta. Era sfarzoso, con le pareti coperte di vasti specchi e levigate colonne di marmo a base quadrata. Aleggiava su tutto, quel colore deciso, provocatorio, inquietante! Due grandi macchie imperversavano: il divano di cortesia e l’enorme cassa panciuta, entrambe imbottiti e avvolti in finta pelle, giallo shocking. Sulla ribalta, Gina la cassiera, esercitava la sua autorità di sovrana, distribuendo biglietti e incamerando spiccioli. Esibiva camicette attillate e pigri seni prosperosi, lascive permanenti, unghie laccate di fuoco e fumava lungo, con il bocchino nero. Ammiccava alla maschera, e masticava gomme americane, contorcendo quella bocca dalle labbra rosse, sferzanti retorica voluttà dei sobborghi.
Arrivarono gli alieni e la mostruosa civiltà dei consumi che tutto corrose, anche i ricordi. Negli anni ’70, iniziò la decadenza della civiltà operaia e la crisi dei cinema periferici; ma nonostante ciò quel mondo fantastico e oscuro, resistette, senza cedere all'oblio. Il Major mantenne intatto il suo morboso divano giallo, gli specchi, gli scaloni di marmo, le poltroncine di legno e i tendoni di velluto rosso, che occultavano infero ed eliso, platea e galleria, dove ottocentocinquantadue posti a sedere sembravano, ormai, davvero troppi. Il licenzioso, sublime deserto, resistette, per gli ultimi innamorati delle tenebre, lacerate dalla luce fantomatica del proiettore, che non sputava più le facce di Clarke Gable e Marylin Monroe ma tette, sederi e organi genitali in azione. La salvezza intangibile si tinse di vermiglio, mugolii, umori. Matteo ne fu molto rattristato. Era rimasto solo al mondo e fin da ragazzino quel cinema era il suo rifugio, l’astronave diretta al fantastico, quando ci viaggiava con mamma e papà. Dovette vincere molte resistenze per accettare il cambiamento. Ogni volta che passava davanti alle porte di cristallo, una fitta lancinante gli feriva il cuore. Con poche migliaia di Lire, adesso, avrebbe potuto comprare tristi passioni solitarie, non più Totò e Peppino, Ercole al centro della terra, o 007, con licenza d’uccidere. Esitò per anni, sapendo che cosa rischiava: sulle pareti del degradato foyer, accanto alle locandine dei film, due cartelli avvertivano i clienti che nel locale potevano svolgersi attività fastidiose.
Quando Angela lo lasciò, per tradirlo con il suo miglior amico, si sentì triste come un montone senza pastore e prese una storica decisione: gli mancava troppo il suo regno di celluloide. Sarebbe ritornato in platea per vivere un colpevole ritorno al passato, felice di poter continuare a viaggiare nello spazio e nel tempo, restando nel locale della sua infanzia dal primo pomeriggio a mezza notte, per piangere, nascondersi e dimenticare. Matteo pagò ed entrò. Impiegò alcuni minuti per adeguare la vista al buio. Sullo schermo, una bocca teenager si stava lavorando una mercanzia infiammata. I lunghi capelli rossi, conferivano alla divetta un’aria di trasandata eleganza. Il ragazzo trovò posto a sedere, dietro ad un gruppo di pervertiti, che a quella ora del pomeriggio occupavano a frotte il locale, complottando nelle basse vie. Ne fu schifato, come ogni persona da bene provava ribrezzo per le sordide combutte omosessuali. Accovacciato sulla sua poltrona, si abbandonò all’ipnosi lasciva, senza badare al giovincello che si era seduto accanto a lui. Il nuovo arrivato, liberò il gaio pagliaccio e prese a lisciarlo con sapienti evoluzioni, senza vergogna, tenendolo ben in mostra, con la punta ritta, rovente come massa lavica. Matteo lo trascurò, ben sapendo che nei caliginosi pomeriggi c’era sempre qualcuno pronto a servigi di gran lusso. Lui non avrebbe mai acconsentito. Lui era un normale deluso, sempre cornuto e mazzolato. Lo tradivo tutte.
Sullo schermo scorrevano eloquenti fotogrammi. Senza interruzione, i discorsi orali si alternavano agli incontri profondi, ma poi… accadde, e Matteo non riuscì a controllarsi. L’uomo del film iniziò a sodomizzare due femmine, contemporaneamente. Era quella una situazione fatale, che lo eccitava irreparabilmente. Immaginarlo avvolto in quell’anello stretto e sodo, gli dava più gusto di qualsiasi altra cosa. Matteo prese a toccarsi, vergognosamente, tenendo la mano nascosta nella patta dei calzoni, si compiaceva con movimenti lenti, per passare inosservato e durare almeno quanto la scena che stava guardano. Il ragazzo della poltrona accanto, lo teneva d’occhio e si accorse della sua abilità nel darsi piacere. Sospinse un ginocchio contro la sua coscia, mettendolo in agitazione. Non era abituato a quei colpi e non osò alzare la voce per invitare il vicino a levarsi di torno. Per timidezza, Matteo, lasciò che lo sconosciuto continuasse il corteggiamento, che divenne ardito e prese coraggio. La mano volò sulla coscia, leggera come piuma. Il tocco carezzevole, che avrebbe voluto rifiutare, gli provocò un’intensa eccitazione. Il peccato entrò nella patta dei calzoni, senza troppi complimenti. Matteo si girò per guardarlo in viso.
Era un bel giovane biondo, dai tratti effeminati. Non ebbe il tempo di protestare, fu scosso da un fremito, quando il ragazzo sorrise e gli afferrò il membro, stringendolo con vigore. Non l'allontanò, girò nuovamente la testa verso lo schermo, fingendo indifferenza e lasciò che lo lavorasse come meglio preferiva, facendosi cullare dal movimento delle dita che scorrevano in modo delicato, prendendo progressivamente velocità. Sollevò il torace e si lasciò andare ad un sospiro, tormentato da uno stimolo inaccettabile e da un orribile desiderio. Un'ondata di calore stava per farlo traboccare d’euforia, ma rimase immobile, irrigidito, inchiodato alla poltrona. L’angelica sinistra dello sfrontato ragazzino, non esitò a liberarglielo, per strofinarne meglio lo stelo, mentre la destra seguitava la sua opera autarchica, ancor più eccitata dal lavorio della gemella. A Matteo non parve vero di trovarsi in quella situazione. Con suo grande stupore, scoprì che non c'era differenza fra le attenzioni manuali di un uomo e di una donna. La solitudine non durò a lungo. L’ignoto prese la mano di Matteo, per farla sua.
Lui non ritrasse le dita, ma volle vedere a cosa andava incontro e girò il volto, abbassando lo sguardo: era enorme e più massiccio del suo. Si trovò a fare i conti con un’abbondante salivazione, la stessa che provava desiderando qualcosa d’appetitoso. Matteo si chinò, spinto ad imitare la produttività della diva di turno, riempiendosi la bocca di una brama oscura. Vergogna! Altro che schifo, lo voleva, lo voleva più che mai, fra le labbra e in bocca. In cuor suo si arrabbiò, perché durò troppo poco. Matteo lo asciugò con la lingua e si ritrasse, le mani lorde. I fazzoletti di carta caddero sul pavimento, uno dopo l'altro. Terminata la pulizia volse lo sguardo allo schermo, dove stava scorrendo un'altra pellicola, troppo simile alla precedente. Non si voltò più per guardare negli occhi la maledizione, che lo stava dilaniando con possenti attacchi, dall’alto al basso, dal basso all’alto, terminando il galoppo con colpi netti, precisi, lancinanti, e così… lo finì.
Matteo rimase nella sala fino a mezzanotte, con tutti i suoi sensi di colpa. Tornò all’aria aperta. L’afa era insopportabile come il fastidio allo stomaco. Il sedicenne, dalla maestosa potenza, si era eclissato, senza salutarlo, senza ringraziarlo. S'incamminò verso casa, sotto la pioggia battente di un temporale estivo. Abitava nelle vicinanze, di fronte al Parco Sempione. Erano solo cinque minuti di camminata a piedi, nei quali il rifiuto di ammettere quello che era, cercava validi argomenti. Dovette vincere molte resistenze per accettare la rivelazione ed il cambiamento che comportava.
Passò i giorni successivi al telefono, implorando appuntamenti da nuove amiche e vecchie fiamme. Doveva ben provare a se stesso d’essere ancora sano! Ogni volta che passava davanti al Major un empio spasmo, lo afferrava all’inguine, ma poi… prese l'abitudine di tornare all’inferno, almeno due volte a settimana e l’adolescente di belle doti… non lo incontrò più.
Arrivarono gli alieni e la mostruosa civiltà dei consumi che tutto corrose, anche i ricordi. Negli anni ’70, iniziò la decadenza della civiltà operaia e la crisi dei cinema periferici; ma nonostante ciò quel mondo fantastico e oscuro, resistette, senza cedere all'oblio. Il Major mantenne intatto il suo morboso divano giallo, gli specchi, gli scaloni di marmo, le poltroncine di legno e i tendoni di velluto rosso, che occultavano infero ed eliso, platea e galleria, dove ottocentocinquantadue posti a sedere sembravano, ormai, davvero troppi. Il licenzioso, sublime deserto, resistette, per gli ultimi innamorati delle tenebre, lacerate dalla luce fantomatica del proiettore, che non sputava più le facce di Clarke Gable e Marylin Monroe ma tette, sederi e organi genitali in azione. La salvezza intangibile si tinse di vermiglio, mugolii, umori. Matteo ne fu molto rattristato. Era rimasto solo al mondo e fin da ragazzino quel cinema era il suo rifugio, l’astronave diretta al fantastico, quando ci viaggiava con mamma e papà. Dovette vincere molte resistenze per accettare il cambiamento. Ogni volta che passava davanti alle porte di cristallo, una fitta lancinante gli feriva il cuore. Con poche migliaia di Lire, adesso, avrebbe potuto comprare tristi passioni solitarie, non più Totò e Peppino, Ercole al centro della terra, o 007, con licenza d’uccidere. Esitò per anni, sapendo che cosa rischiava: sulle pareti del degradato foyer, accanto alle locandine dei film, due cartelli avvertivano i clienti che nel locale potevano svolgersi attività fastidiose.
Quando Angela lo lasciò, per tradirlo con il suo miglior amico, si sentì triste come un montone senza pastore e prese una storica decisione: gli mancava troppo il suo regno di celluloide. Sarebbe ritornato in platea per vivere un colpevole ritorno al passato, felice di poter continuare a viaggiare nello spazio e nel tempo, restando nel locale della sua infanzia dal primo pomeriggio a mezza notte, per piangere, nascondersi e dimenticare. Matteo pagò ed entrò. Impiegò alcuni minuti per adeguare la vista al buio. Sullo schermo, una bocca teenager si stava lavorando una mercanzia infiammata. I lunghi capelli rossi, conferivano alla divetta un’aria di trasandata eleganza. Il ragazzo trovò posto a sedere, dietro ad un gruppo di pervertiti, che a quella ora del pomeriggio occupavano a frotte il locale, complottando nelle basse vie. Ne fu schifato, come ogni persona da bene provava ribrezzo per le sordide combutte omosessuali. Accovacciato sulla sua poltrona, si abbandonò all’ipnosi lasciva, senza badare al giovincello che si era seduto accanto a lui. Il nuovo arrivato, liberò il gaio pagliaccio e prese a lisciarlo con sapienti evoluzioni, senza vergogna, tenendolo ben in mostra, con la punta ritta, rovente come massa lavica. Matteo lo trascurò, ben sapendo che nei caliginosi pomeriggi c’era sempre qualcuno pronto a servigi di gran lusso. Lui non avrebbe mai acconsentito. Lui era un normale deluso, sempre cornuto e mazzolato. Lo tradivo tutte.
Sullo schermo scorrevano eloquenti fotogrammi. Senza interruzione, i discorsi orali si alternavano agli incontri profondi, ma poi… accadde, e Matteo non riuscì a controllarsi. L’uomo del film iniziò a sodomizzare due femmine, contemporaneamente. Era quella una situazione fatale, che lo eccitava irreparabilmente. Immaginarlo avvolto in quell’anello stretto e sodo, gli dava più gusto di qualsiasi altra cosa. Matteo prese a toccarsi, vergognosamente, tenendo la mano nascosta nella patta dei calzoni, si compiaceva con movimenti lenti, per passare inosservato e durare almeno quanto la scena che stava guardano. Il ragazzo della poltrona accanto, lo teneva d’occhio e si accorse della sua abilità nel darsi piacere. Sospinse un ginocchio contro la sua coscia, mettendolo in agitazione. Non era abituato a quei colpi e non osò alzare la voce per invitare il vicino a levarsi di torno. Per timidezza, Matteo, lasciò che lo sconosciuto continuasse il corteggiamento, che divenne ardito e prese coraggio. La mano volò sulla coscia, leggera come piuma. Il tocco carezzevole, che avrebbe voluto rifiutare, gli provocò un’intensa eccitazione. Il peccato entrò nella patta dei calzoni, senza troppi complimenti. Matteo si girò per guardarlo in viso.
Era un bel giovane biondo, dai tratti effeminati. Non ebbe il tempo di protestare, fu scosso da un fremito, quando il ragazzo sorrise e gli afferrò il membro, stringendolo con vigore. Non l'allontanò, girò nuovamente la testa verso lo schermo, fingendo indifferenza e lasciò che lo lavorasse come meglio preferiva, facendosi cullare dal movimento delle dita che scorrevano in modo delicato, prendendo progressivamente velocità. Sollevò il torace e si lasciò andare ad un sospiro, tormentato da uno stimolo inaccettabile e da un orribile desiderio. Un'ondata di calore stava per farlo traboccare d’euforia, ma rimase immobile, irrigidito, inchiodato alla poltrona. L’angelica sinistra dello sfrontato ragazzino, non esitò a liberarglielo, per strofinarne meglio lo stelo, mentre la destra seguitava la sua opera autarchica, ancor più eccitata dal lavorio della gemella. A Matteo non parve vero di trovarsi in quella situazione. Con suo grande stupore, scoprì che non c'era differenza fra le attenzioni manuali di un uomo e di una donna. La solitudine non durò a lungo. L’ignoto prese la mano di Matteo, per farla sua.
Lui non ritrasse le dita, ma volle vedere a cosa andava incontro e girò il volto, abbassando lo sguardo: era enorme e più massiccio del suo. Si trovò a fare i conti con un’abbondante salivazione, la stessa che provava desiderando qualcosa d’appetitoso. Matteo si chinò, spinto ad imitare la produttività della diva di turno, riempiendosi la bocca di una brama oscura. Vergogna! Altro che schifo, lo voleva, lo voleva più che mai, fra le labbra e in bocca. In cuor suo si arrabbiò, perché durò troppo poco. Matteo lo asciugò con la lingua e si ritrasse, le mani lorde. I fazzoletti di carta caddero sul pavimento, uno dopo l'altro. Terminata la pulizia volse lo sguardo allo schermo, dove stava scorrendo un'altra pellicola, troppo simile alla precedente. Non si voltò più per guardare negli occhi la maledizione, che lo stava dilaniando con possenti attacchi, dall’alto al basso, dal basso all’alto, terminando il galoppo con colpi netti, precisi, lancinanti, e così… lo finì.
Matteo rimase nella sala fino a mezzanotte, con tutti i suoi sensi di colpa. Tornò all’aria aperta. L’afa era insopportabile come il fastidio allo stomaco. Il sedicenne, dalla maestosa potenza, si era eclissato, senza salutarlo, senza ringraziarlo. S'incamminò verso casa, sotto la pioggia battente di un temporale estivo. Abitava nelle vicinanze, di fronte al Parco Sempione. Erano solo cinque minuti di camminata a piedi, nei quali il rifiuto di ammettere quello che era, cercava validi argomenti. Dovette vincere molte resistenze per accettare la rivelazione ed il cambiamento che comportava.
Passò i giorni successivi al telefono, implorando appuntamenti da nuove amiche e vecchie fiamme. Doveva ben provare a se stesso d’essere ancora sano! Ogni volta che passava davanti al Major un empio spasmo, lo afferrava all’inguine, ma poi… prese l'abitudine di tornare all’inferno, almeno due volte a settimana e l’adolescente di belle doti… non lo incontrò più.