ROBIN HOOD A TORINO
Nella seconda metà del 1800 Torino perse il ruolo di capitale d’Italia, che passò a Firenze. La miseria iniziò a crescere con la perdita di mille e non più mille attività economiche, private e pubbliche. La devastazione incombeva. Ai margini del centro storico ricco di palazzi nobiliari, a poche centinaia di metri dalla splendida Piazza Vittorio, si estendevano i quartieri dei disgraziati, come il Moschino e Borgo Vanchiglia, sulle rive del fiume Po. Zone malsane a causa degli acquitrini mai bonificati. Proprio qui, tra fitte nebbie, topi, pulci, mosche e zanzare, prese dimora un uomo di gran talento criminale. Il leggendario Cit ëd Vanchija, al secolo Antonio Bruno.
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Riportano le cronache, “il più celebre, bello e leale dei banditi. Immigrato nel capoluogo subalpino da Canale Roero, il giovanotto era ben intenzionato a impegnarsi in un onesto lavoro: tentò di fare il calzolaio, il sellaio, il venditore ambulante di frutta, ma la sua e l’altrui povertà lo disgustava. Se nobili, borghesi e bottegai non usavano pietà e giustizia nei confronti del popolo, l’unica via era farsela da soli e iniziò a espropriare cose qua e là. Arrestato nel 1865 costituì in carcere, con altri detenuti, l’associazione Amici di Borgo Po.
Scontate le pene, dal 1868 il gruppo iniziò a operare in grande: furti in alberghi, ricche abitazioni e uffici pubblici, come la sede centrale delle Poste di Torino. Nonostante i numerosi tentativi delle forze dell’ordine per fermarli, gli Amici di Borgo Po erano imprendibili e andavano a segno anche durante il giorno, bersagliando eminenti personaggi, tra cui il senatore Quintino Sella, la famiglia Perrone di San Martino e i Conti Maineri. Gli imprevedibili saccheggi erano rocamboleschi, come nel caso del cambiavalute Guastalla, al quale fu sottratta una cassaforte contente centomila lire, mentre quest’ultimo dormiva nella stanza accanto.
La questura di Torino, allora, disseminò di spie la città, anche per far cessare il clamore suscitato dai giornali sull’incompetenza delle forze dell’ordine. Iniziarono i primi arresti. Un manipolo di agenti firmò un’importante retata notturna, facendo irruzione a Moncalieri all’osteria del Pesce d’Oro. Due uomini e due donne furono catturati, ma il Cit di Vanchiglia riuscì a fuggire saltando dal balcone del primo piano. Antonio Bruno evitò una seconda trappola tesagli dalle forze dell’ordine qualche settimana dopo, presso la stazione ferroviaria di Vaglieranno; poi scomparve nel nulla lasciando solo una scia di misteri.
Molti affermavano che fosse fuggito a Milano, Marsiglia, Lugano, ma alcuni amici sfuggiti alle maglie della giustizia, lo videro in aula, camuffato da servetta, e tacquero: l’inarrestabile eroe era tornato per assistere al processo con un mazzolino di fiori tra le mani e una cuffietta in testa. Il tribunale vide sfilare ben cinquanta imputati, cosa che rese l’evento uno dei più imponenti mai visti fino a quel momento. L’istruttoria durò due anni e mezzo e vide l’accusa centrata su una ventina di furti e un omicidio, cui tuttavia il “Cit” non prese parte.
Le prove adoperate furono poco più che indizi e testimonianze di ex complici pentiti. La sentenza di colpevolezza arrivò come punizione per l’inattesa reazione di alcuni indagati: ben nove di questi fuggirono dal Carcere Le Nuove, nella notte di capodanno del 1872. La giuria popolare dell’epoca, non ebbe pietà e condanno a pene severe tutti gli imputati rimasti. Bruno, fu punito in contumacia con i lavori forzati a vita. La condanna cadde in prescrizione poiché il ladro astuto e bello, che aveva appassionato e terrorizzato gli abitanti allo stesso tempo, non fu mai scovato.
Del suo caso si occuparono menti illustri come Giovanni Saragat padre di Giuseppe, futuro presidente della Repubblica, che di lui narrò le gesta sulla Gazzetta Piemontese, persino il noto Cesare Lombroso ne fece oggetto di studio, quando dovette intervenire quale perito dell’accusa nel successivo processo alla Nuova Banda dei Cinquantacinque, di cui facevano anche parte ex complici del Cit ëd Vanchija.
Le gesta di Antonio Bruno divennero presto letteratura e il personaggio storico cedette a quello di finzione, in quattro commedie e tre romanzi. Tra queste opere, Il Piccolo di Vanchiglia di Carolina Invernizio, pubblicato a puntate d’appendice sulla Gazzetta di Torino e successivamente in volume nel 1895. La casa editrice Salani di Firenze lo ristampò, modificandone il titolo per renderlo meno torinese.
Vide così la luce “Il segreto di un bandito”, che ebbe un successo notevolissimo anche in Argentina. Tra la criminologia e la letteratura, nacque un mito che ormai pochi ricordano. Oggi sopravvive solo la leggenda del Robin Hood torinese, svanito misteriosamente, oltre le Alpi o nelle nebbie padane, senza lasciare notizie.
Scontate le pene, dal 1868 il gruppo iniziò a operare in grande: furti in alberghi, ricche abitazioni e uffici pubblici, come la sede centrale delle Poste di Torino. Nonostante i numerosi tentativi delle forze dell’ordine per fermarli, gli Amici di Borgo Po erano imprendibili e andavano a segno anche durante il giorno, bersagliando eminenti personaggi, tra cui il senatore Quintino Sella, la famiglia Perrone di San Martino e i Conti Maineri. Gli imprevedibili saccheggi erano rocamboleschi, come nel caso del cambiavalute Guastalla, al quale fu sottratta una cassaforte contente centomila lire, mentre quest’ultimo dormiva nella stanza accanto.
La questura di Torino, allora, disseminò di spie la città, anche per far cessare il clamore suscitato dai giornali sull’incompetenza delle forze dell’ordine. Iniziarono i primi arresti. Un manipolo di agenti firmò un’importante retata notturna, facendo irruzione a Moncalieri all’osteria del Pesce d’Oro. Due uomini e due donne furono catturati, ma il Cit di Vanchiglia riuscì a fuggire saltando dal balcone del primo piano. Antonio Bruno evitò una seconda trappola tesagli dalle forze dell’ordine qualche settimana dopo, presso la stazione ferroviaria di Vaglieranno; poi scomparve nel nulla lasciando solo una scia di misteri.
Molti affermavano che fosse fuggito a Milano, Marsiglia, Lugano, ma alcuni amici sfuggiti alle maglie della giustizia, lo videro in aula, camuffato da servetta, e tacquero: l’inarrestabile eroe era tornato per assistere al processo con un mazzolino di fiori tra le mani e una cuffietta in testa. Il tribunale vide sfilare ben cinquanta imputati, cosa che rese l’evento uno dei più imponenti mai visti fino a quel momento. L’istruttoria durò due anni e mezzo e vide l’accusa centrata su una ventina di furti e un omicidio, cui tuttavia il “Cit” non prese parte.
Le prove adoperate furono poco più che indizi e testimonianze di ex complici pentiti. La sentenza di colpevolezza arrivò come punizione per l’inattesa reazione di alcuni indagati: ben nove di questi fuggirono dal Carcere Le Nuove, nella notte di capodanno del 1872. La giuria popolare dell’epoca, non ebbe pietà e condanno a pene severe tutti gli imputati rimasti. Bruno, fu punito in contumacia con i lavori forzati a vita. La condanna cadde in prescrizione poiché il ladro astuto e bello, che aveva appassionato e terrorizzato gli abitanti allo stesso tempo, non fu mai scovato.
Del suo caso si occuparono menti illustri come Giovanni Saragat padre di Giuseppe, futuro presidente della Repubblica, che di lui narrò le gesta sulla Gazzetta Piemontese, persino il noto Cesare Lombroso ne fece oggetto di studio, quando dovette intervenire quale perito dell’accusa nel successivo processo alla Nuova Banda dei Cinquantacinque, di cui facevano anche parte ex complici del Cit ëd Vanchija.
Le gesta di Antonio Bruno divennero presto letteratura e il personaggio storico cedette a quello di finzione, in quattro commedie e tre romanzi. Tra queste opere, Il Piccolo di Vanchiglia di Carolina Invernizio, pubblicato a puntate d’appendice sulla Gazzetta di Torino e successivamente in volume nel 1895. La casa editrice Salani di Firenze lo ristampò, modificandone il titolo per renderlo meno torinese.
Vide così la luce “Il segreto di un bandito”, che ebbe un successo notevolissimo anche in Argentina. Tra la criminologia e la letteratura, nacque un mito che ormai pochi ricordano. Oggi sopravvive solo la leggenda del Robin Hood torinese, svanito misteriosamente, oltre le Alpi o nelle nebbie padane, senza lasciare notizie.