LA FABBRICA NUOVA
Sotto un cielo plumbeo, senza luna, senza stelle, senza sole, c’era una fabbrica modernissima, circondata da un profondo fossato, colmo di fluente acqua rossastra.
Sulle sue sponde crescevano alti steccati, rigogliosi cavalli di frisia e filo spinato, fitto, come erba viva e dissetata. Pareva d’essere nel cuore di una foresta d’acciaio perenne, duro, saldo, massiccio, sprezzante del divenire. E là, in una fossa, stregati da tanta meraviglia, vivevano un ragazzo e i suoi fratellini. Il giovane, che si chiamava Maggiore, era nato in quello strano avvallamento del suolo. Sua madre lo aveva abbandonato in tenera età, per entrare nell’avveniristico stabilimento, affidandogli |
i tre marmocchi: Primo, Secondo e Terzo. Adesso era lui che doveva badare ai piccini. Questi, invece di darsi pena per il futuro, preferivano diguazzare lietamente nel fossato. Il cibo, certo, abbondava. L’acqua scarlatta che scivolava nel torrente artificiale era molto nutriente.
La più intensa aspirazione del ragazzo era di entrare a lavorare in quel luogo impenetrabile, pur sapendo che non ne sarebbe mai più uscito. Questo pensiero lo lasciava indifferente, poiché il mondo gli era venuto a noia: le reti, il filo spinato, il fossato, l’asfalto, sul quale riposava con i fratelli, e tutto intorno ad una distesa infinita di cemento, che si perdeva a vista d’occhio, monotona e uniforme. Il giovane non aveva mai accarezzato l’idea di mettersi in marcia per conquistare l’orizzonte, per andare a scoprire cosa celasse la fine del deserto di bitume, sempre che avesse avuto una fine… ma no, forse, in qualche raro momento di coraggiosa depressione ci aveva pensato, poi due validi motivi avevano cancellato l’insano proposito. Dove avrebbe trovato la dolce bevanda vermiglia di cui cibarsi? Quale strada avrebbe dovuto percorrere per arrivare, visto che non esistevano né vie, né mete? “Vieni a nuotare! Vieni, vieni anche tu!!” gridarono i fratelli di Maggiore dal fondo del canale. “Smettete di urlare, non sono sordo!… credete che il mondo sia tutto in quel fossato?!” rispose loro, un po’ alterato. “Il mondo è ben più grande”, riprese, “non vi siete mai chiesti come potrebbe essere, dentro, la fabbrica nuova?” Era giunto il momento di spiegare ai ragazzini che cosa avrebbe loro riservato il futuro. Dopo averli richiamati all’ordine e fatti sedere accanto a sé, iniziò a parlare, pacatamente, senza fretta: ciò che stava per dire era veramente importante. “Io capisco la vostra esuberanza, la gioia spensierata e la voglia che avete di ridere, giocare e scherzare, ma… purtroppo la fanciullezza finisce presto; fra breve scoprirete d'essere uomini.” Il giovane assunse un tono paterno e deciso. La sua missione poteva concludersi nel volgere di un breve intervallo; non voleva abbandonarli senza aver detto loro ciò che sapeva. La sua conoscenza, purtroppo, si limitava a poche, scarne, informazioni, che la madre gli aveva lasciato in eredità prima di andarsene: “La nostra realtà è una delle più difficili da sostenere, tra quelle toccate sino ad oggi agli uomini che ci hanno preceduto. Noi dobbiamo scegliere se restare qui, a contemplare il cielo e i reticolati, o se entrare nella fabbrica, scordando di essere gli ultimi, liberi di vivere fuori, nell’attesa che accada qualcosa. Sinceramente non saprei dirvi se oltre l’orizzonte sconfinato, esistano altri fossati popolati e altre fabbriche. Io ho deciso che non me la sento di rischiare la vita andando a caccia d’illusioni. D’altra parte, in tutto questo tempo, non è arrivato nessuno, da alcun punto cardinale. Vuol dire che il mondo finisce laggiù, dove cade lo sguardo. “Oppure tutti gli ignoti che abitano oltre il limite la pensano come te”, osò ribattere Secondo, uno dei fratellini.
“Stai zitto”, disse Primo. “Maggiore ha ragione, forse qualcuno tentò la traversata e morì, perché la distanza da coprire era enorme.”
Terzo, il più piccino, diventò tristissimo. Calde lacrime rosate iniziarono a rigargli le gote paffute: “Non ci abbandonare, non entrare in quel posto bruttissimo. Ho paura, cosa faremo dopo?!”
Pioveva. Una fitta gragnola di pulviscolo grigiastro scendeva dal cielo e, posandosi sui loro corpi e sull’asfalto, si dissolveva, si disintegrava, non lasciava tracce. Quel piovasco di polvere non aveva temperatura, né consistenza. Era realmente illusorio. Neppure si sapeva di dove provenisse: appariva, permeava silenziosamente quel film in bianco e nero, ma non era, non era mai stato, né mai sarebbe stato.
“Piove”, pensò Maggiore, senza la minima sorpresa. “Un tempo, la compagnia della pioggia mi rendeva felice, ma adesso...”
I fratellini si misero a rincorrere i fiocchi impalpabili, cercando di afferrarli. Si divertivano e nel gioco già avevano scordato i pericoli e i moniti che lo avevano preceduto. Che divertimento infinito! La pulverulenza appariva ad intervalli irregolari, che mai avrebbero potuto essere misurati, giacché tutto era immobile, tranne lo scorrere dell’acqua rossastra nel fossato di cinta.
La luce non era diffusa da nessuna fonte. Si rifletteva, si rifrangeva, riverberava fra acciai e ferri cromati, generando uno spettacolo di luminescenze vespertine, con tonalità grigie violacee, rosate e giallo acido. La sua intensità era la stessa, in ogni angolo della sconfinata pianura di solida pece, in ogni istante di quel crepuscolo eterno. Il filo spinato, le reti metalliche, i pali di sostegno erano lucidissimi. Nessun genere d’ossidazione poteva prodursi, senza variazioni atmosferiche.
La temperatura era mite, ideale, utopica. L’umidità non era gradita, tanto che quando i giovinetti uscivano dal canale bagnati fradici per aver lungamente nuotato, le minute gocciole che scorrevano sui loro corpi, cadendo sull’asfalto erano immediatamente riassorbite. Scomparivano. In quel regno incantato, l’ordine e l’armonia erano monarchi assoluti.
Un bel momento il ragazzo iniziò a pensare a cose che non gli erano mai passate per la testa. Camminò per un po’, sedette accanto ad un alto recinto a larghe maglie, poggiando stancamente la schiena sul metallo, che la accolse, avvolgente come una balia. Il suo guardare si perse nella contemplazione della fabbrica nuova.
L’edificio era un grande parallelepipedo di base rettangolare, abbastanza profondo, molto alto e lungo quattro volte tanto. La superficie viola scuro, era completamente liscia, formata di un materiale simile a cristallo. L’imponente costruzione non aveva aperture, (finestre, porte, ciminiere, tubature) che mettevano in comunicazione l’interno con l’esterno. L’enigma più astruso non era nulla a confronto di quel monolite, mantenuto in vita da chissà quale attività. Le persone che vi lavoravano erano ancora là dentro. Si poteva, a ragion veduta, supporre che stessero bene e non desiderassero uscire.
Maggiore ricordava lucidamente il momento in cui la mamma lo aveva lasciato, sussurrandogli dolcemente: “È tempo che vada. Guarda… si apre una porta della fabbrica nuova: è questo il momento che ho atteso per tutta la vita. Ora andrò, lentamente, fiduciosamente, sicura, come un seme nel grembo della terra, sarò inghiottita per sempre, e vivrò là, in pace, per dare frutto.”
Chissà che meraviglie accadevano in quel luogo, quali tesori celavano le pareti di livido cristallo?! Non pioveva più. Per un istante l’Intero sussultò, ma in modo impreciso.
La cupola del cielo, color vinaccia, divenne chiara, sempre più lucente, tersa, rosata. Un fremito incontenibile la percorse, poi tutto riprese il naturale ritmo di ogni sempre. Ma qualcuno s’era messo in ascolto, vigile, attento, pronto a intervenire. Un pensiero inaspettato aveva modificato la struttura biologica del ragazzo. I dati elaborati dalle sue sinapsi erano stati captati da un invisibile sistema di controllo, che aveva subito capito: Maggiore non voleva più indugiare aspettando la chiamata!! Ribellione! Anatema!
L’uomo si levò in piedi, rivelando una figura d’insospettata imponenza. Si avviò con trepidazione, a passo deciso, verso la fabbrica, avvedendosi d’aver peccato, perché il mondo assunse un aspetto che egli non aveva mai conosciuto.
Il cielo si tinse furiosamente di rosso, irradiando insostenibili bagliori. L’aria divenne rovente e fu pervasa da sibili acutissimi. Miliardi di sirene levarono all’unisono il loro grido disperato. Maggiore si fermò, comprimendo la testa fra le braccia. Era prossimo all’edificio, ma più s’accostava, più i sibili divenivano insopportabili. La bufera di suoni s’acchetava se egli rimaneva immobile; ormai l’immensa facciata era a pochi passi. Camminando lentamente, avvolto dall’immenso segnale, ed arrestandosi per lunghi momenti, ingannò gli dei.
Si stupì d’aver superato l’ultimo tratto di strada, dove colori e note lo avevano schiacciato come in una pressa. Il cielo vorticava su se stesso. Il gorgo purpureo, lentamente, tornava a colorarsi di grigio. Ora era il silenzio a urlare, forandogli i timpani.
Toccò la parete di cristallo e tutto… scomparve attorno al lui. Solo, anche il suo corpo s’era dissolto. Rimaneva il nulla e una precisa consapevolezza d’essere ancora qualcosa. La Voce che permea il Vuoto disse: “Sei di fronte a te stesso, io sono il tuo giudice. Inchinati! Prendi la falce e mieti il tuo raccolto. Quando morirete, come tutti morirono, sarete là, dove tutto esiste ma nulla sussiste, ed ognuno farà da sé la morte che meritò vivendo. In lei ci sarà il mondo che avrà preparato vivendo, popolato di demoni o angeli, di ricordi, gioie e sofferenze, di nostalgie, di amici e parenti scomparsi, che lo accoglieranno, di buio o di luce eterni. Esisterà una dimora diversa per ogni Orfeo innamorato dei sensi.”
Mi svegliai terrorizzato, fremente d’angoscia. Dov’ero stato quella notte?
La luce fioca dell’alba, penetrava dagli scuri delle finestre: gli uccelli salutavano il giorno con il loro vociare collettivo. Petulante e preciso. Accesi una sigaretta e sorrisi, felice di poter vivere una banalissima giornata d’estate. Per quanto tempo ancora avrei potuto sognare l’al di là nel mio letto, prima di sognare il mio morbido letto nell’al di là?
La più intensa aspirazione del ragazzo era di entrare a lavorare in quel luogo impenetrabile, pur sapendo che non ne sarebbe mai più uscito. Questo pensiero lo lasciava indifferente, poiché il mondo gli era venuto a noia: le reti, il filo spinato, il fossato, l’asfalto, sul quale riposava con i fratelli, e tutto intorno ad una distesa infinita di cemento, che si perdeva a vista d’occhio, monotona e uniforme. Il giovane non aveva mai accarezzato l’idea di mettersi in marcia per conquistare l’orizzonte, per andare a scoprire cosa celasse la fine del deserto di bitume, sempre che avesse avuto una fine… ma no, forse, in qualche raro momento di coraggiosa depressione ci aveva pensato, poi due validi motivi avevano cancellato l’insano proposito. Dove avrebbe trovato la dolce bevanda vermiglia di cui cibarsi? Quale strada avrebbe dovuto percorrere per arrivare, visto che non esistevano né vie, né mete? “Vieni a nuotare! Vieni, vieni anche tu!!” gridarono i fratelli di Maggiore dal fondo del canale. “Smettete di urlare, non sono sordo!… credete che il mondo sia tutto in quel fossato?!” rispose loro, un po’ alterato. “Il mondo è ben più grande”, riprese, “non vi siete mai chiesti come potrebbe essere, dentro, la fabbrica nuova?” Era giunto il momento di spiegare ai ragazzini che cosa avrebbe loro riservato il futuro. Dopo averli richiamati all’ordine e fatti sedere accanto a sé, iniziò a parlare, pacatamente, senza fretta: ciò che stava per dire era veramente importante. “Io capisco la vostra esuberanza, la gioia spensierata e la voglia che avete di ridere, giocare e scherzare, ma… purtroppo la fanciullezza finisce presto; fra breve scoprirete d'essere uomini.” Il giovane assunse un tono paterno e deciso. La sua missione poteva concludersi nel volgere di un breve intervallo; non voleva abbandonarli senza aver detto loro ciò che sapeva. La sua conoscenza, purtroppo, si limitava a poche, scarne, informazioni, che la madre gli aveva lasciato in eredità prima di andarsene: “La nostra realtà è una delle più difficili da sostenere, tra quelle toccate sino ad oggi agli uomini che ci hanno preceduto. Noi dobbiamo scegliere se restare qui, a contemplare il cielo e i reticolati, o se entrare nella fabbrica, scordando di essere gli ultimi, liberi di vivere fuori, nell’attesa che accada qualcosa. Sinceramente non saprei dirvi se oltre l’orizzonte sconfinato, esistano altri fossati popolati e altre fabbriche. Io ho deciso che non me la sento di rischiare la vita andando a caccia d’illusioni. D’altra parte, in tutto questo tempo, non è arrivato nessuno, da alcun punto cardinale. Vuol dire che il mondo finisce laggiù, dove cade lo sguardo. “Oppure tutti gli ignoti che abitano oltre il limite la pensano come te”, osò ribattere Secondo, uno dei fratellini.
“Stai zitto”, disse Primo. “Maggiore ha ragione, forse qualcuno tentò la traversata e morì, perché la distanza da coprire era enorme.”
Terzo, il più piccino, diventò tristissimo. Calde lacrime rosate iniziarono a rigargli le gote paffute: “Non ci abbandonare, non entrare in quel posto bruttissimo. Ho paura, cosa faremo dopo?!”
Pioveva. Una fitta gragnola di pulviscolo grigiastro scendeva dal cielo e, posandosi sui loro corpi e sull’asfalto, si dissolveva, si disintegrava, non lasciava tracce. Quel piovasco di polvere non aveva temperatura, né consistenza. Era realmente illusorio. Neppure si sapeva di dove provenisse: appariva, permeava silenziosamente quel film in bianco e nero, ma non era, non era mai stato, né mai sarebbe stato.
“Piove”, pensò Maggiore, senza la minima sorpresa. “Un tempo, la compagnia della pioggia mi rendeva felice, ma adesso...”
I fratellini si misero a rincorrere i fiocchi impalpabili, cercando di afferrarli. Si divertivano e nel gioco già avevano scordato i pericoli e i moniti che lo avevano preceduto. Che divertimento infinito! La pulverulenza appariva ad intervalli irregolari, che mai avrebbero potuto essere misurati, giacché tutto era immobile, tranne lo scorrere dell’acqua rossastra nel fossato di cinta.
La luce non era diffusa da nessuna fonte. Si rifletteva, si rifrangeva, riverberava fra acciai e ferri cromati, generando uno spettacolo di luminescenze vespertine, con tonalità grigie violacee, rosate e giallo acido. La sua intensità era la stessa, in ogni angolo della sconfinata pianura di solida pece, in ogni istante di quel crepuscolo eterno. Il filo spinato, le reti metalliche, i pali di sostegno erano lucidissimi. Nessun genere d’ossidazione poteva prodursi, senza variazioni atmosferiche.
La temperatura era mite, ideale, utopica. L’umidità non era gradita, tanto che quando i giovinetti uscivano dal canale bagnati fradici per aver lungamente nuotato, le minute gocciole che scorrevano sui loro corpi, cadendo sull’asfalto erano immediatamente riassorbite. Scomparivano. In quel regno incantato, l’ordine e l’armonia erano monarchi assoluti.
Un bel momento il ragazzo iniziò a pensare a cose che non gli erano mai passate per la testa. Camminò per un po’, sedette accanto ad un alto recinto a larghe maglie, poggiando stancamente la schiena sul metallo, che la accolse, avvolgente come una balia. Il suo guardare si perse nella contemplazione della fabbrica nuova.
L’edificio era un grande parallelepipedo di base rettangolare, abbastanza profondo, molto alto e lungo quattro volte tanto. La superficie viola scuro, era completamente liscia, formata di un materiale simile a cristallo. L’imponente costruzione non aveva aperture, (finestre, porte, ciminiere, tubature) che mettevano in comunicazione l’interno con l’esterno. L’enigma più astruso non era nulla a confronto di quel monolite, mantenuto in vita da chissà quale attività. Le persone che vi lavoravano erano ancora là dentro. Si poteva, a ragion veduta, supporre che stessero bene e non desiderassero uscire.
Maggiore ricordava lucidamente il momento in cui la mamma lo aveva lasciato, sussurrandogli dolcemente: “È tempo che vada. Guarda… si apre una porta della fabbrica nuova: è questo il momento che ho atteso per tutta la vita. Ora andrò, lentamente, fiduciosamente, sicura, come un seme nel grembo della terra, sarò inghiottita per sempre, e vivrò là, in pace, per dare frutto.”
Chissà che meraviglie accadevano in quel luogo, quali tesori celavano le pareti di livido cristallo?! Non pioveva più. Per un istante l’Intero sussultò, ma in modo impreciso.
La cupola del cielo, color vinaccia, divenne chiara, sempre più lucente, tersa, rosata. Un fremito incontenibile la percorse, poi tutto riprese il naturale ritmo di ogni sempre. Ma qualcuno s’era messo in ascolto, vigile, attento, pronto a intervenire. Un pensiero inaspettato aveva modificato la struttura biologica del ragazzo. I dati elaborati dalle sue sinapsi erano stati captati da un invisibile sistema di controllo, che aveva subito capito: Maggiore non voleva più indugiare aspettando la chiamata!! Ribellione! Anatema!
L’uomo si levò in piedi, rivelando una figura d’insospettata imponenza. Si avviò con trepidazione, a passo deciso, verso la fabbrica, avvedendosi d’aver peccato, perché il mondo assunse un aspetto che egli non aveva mai conosciuto.
Il cielo si tinse furiosamente di rosso, irradiando insostenibili bagliori. L’aria divenne rovente e fu pervasa da sibili acutissimi. Miliardi di sirene levarono all’unisono il loro grido disperato. Maggiore si fermò, comprimendo la testa fra le braccia. Era prossimo all’edificio, ma più s’accostava, più i sibili divenivano insopportabili. La bufera di suoni s’acchetava se egli rimaneva immobile; ormai l’immensa facciata era a pochi passi. Camminando lentamente, avvolto dall’immenso segnale, ed arrestandosi per lunghi momenti, ingannò gli dei.
Si stupì d’aver superato l’ultimo tratto di strada, dove colori e note lo avevano schiacciato come in una pressa. Il cielo vorticava su se stesso. Il gorgo purpureo, lentamente, tornava a colorarsi di grigio. Ora era il silenzio a urlare, forandogli i timpani.
Toccò la parete di cristallo e tutto… scomparve attorno al lui. Solo, anche il suo corpo s’era dissolto. Rimaneva il nulla e una precisa consapevolezza d’essere ancora qualcosa. La Voce che permea il Vuoto disse: “Sei di fronte a te stesso, io sono il tuo giudice. Inchinati! Prendi la falce e mieti il tuo raccolto. Quando morirete, come tutti morirono, sarete là, dove tutto esiste ma nulla sussiste, ed ognuno farà da sé la morte che meritò vivendo. In lei ci sarà il mondo che avrà preparato vivendo, popolato di demoni o angeli, di ricordi, gioie e sofferenze, di nostalgie, di amici e parenti scomparsi, che lo accoglieranno, di buio o di luce eterni. Esisterà una dimora diversa per ogni Orfeo innamorato dei sensi.”
Mi svegliai terrorizzato, fremente d’angoscia. Dov’ero stato quella notte?
La luce fioca dell’alba, penetrava dagli scuri delle finestre: gli uccelli salutavano il giorno con il loro vociare collettivo. Petulante e preciso. Accesi una sigaretta e sorrisi, felice di poter vivere una banalissima giornata d’estate. Per quanto tempo ancora avrei potuto sognare l’al di là nel mio letto, prima di sognare il mio morbido letto nell’al di là?