LE GIOIE DEL GIOVANE ATTORE
Sono nato a Torino in Via Milano e morirò a Milano in via Torino. Io sono speculare, pignolo e ordinato. Alla fine degli anni ’50 affittavamo un piccolo alloggio di 43 metri quadri, povero ma dotato delle prime comodità moderne: bagno interno, riscaldamento non proprio centralizzato ma un po’ di lato, cucina a gas, acqua corrente in tutte le stanze quando pioveva, pavimenti di legno tarlato, muffa sulle pareti, balcone sul ballatoio, dove si organizzavano feste danzanti condominiali. La pulizia lasciava a desiderare, tanto che topi e scarafaggi andavano spesso davanti al comune in corteo gridando “Uomini carogne, tornate nelle fogne!”
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Quando morì la vecchia padrona di casa, che era completamentecalva, portava una parrucca bionda polentina e aveva un nasone bitorzoluto lungo un chilometro, la sorpresa fu grande. La signora Pautasso in Collodi ci aveva lasciato in eredità l’immobile. Che vedova borbottona, insopportabile! Ma tanto gentile, mi dava mille bacini con quelle labbra umidicce e screpolate ed io li buttavo via con le mani, però che mente! Mi mancarono molto le sue caramelle. Di menta.
Vennero poi le elementari. Il primo giorno di scuola vidi uno spettacolo pietoso. Tanti bimbi di sei anni che piangevano, io compreso: secondo me ci avevano fregati. Entravano in prima classe ma i banchi erano di legno.
La simpatica maestra era un tantino tirchia: per non sprecare i quaderni ci faceva scrivere sui banchi e poi chiamava il bidello per pulire l’inchiostro, oppure raccoglieva gli scontrini nei negozi e li portava alla sua assicurazione. Pretendeva che trenta scontrini le dessero il diritto a chiedere il premio per uno scontro.
Quando ebbi dodici anni, volle organizzare una recita scolastica e scrisse personalmente, il copione, intitolandolo: “Salopette ha molti peli sulla lingua e non sono suoi”.
Lo spettacolo narrava la storia di una principessa ripudiata da re Salamone perché si addormentava sul pisello. Fuggita da palazzo, la giovane prende molte lezioni di equitazione da un gruppo d’istruttori negri e finalmente impara a cavalcare.
Nel secondo tempo, la principessa Salopette accetta l’invito a cena di Giacobbe Betti, un impresario ebreo di pompe funebri, detto anche Barablù. L’uomo chiude il suo negozio e appende alla saracinesca un cartello con scritto “Chiuso per letto”.
Scena clou della commedia, a casa di lui. Il pendolo suona le ventiquattro, ma sono già le ventiquattro e trentuno. E’ un orologio dimissionario, rifiuta la carica.
Barablù s’innamora istantaneamente delle tette di Salopette e le confessa di aver subìto un processo per aver ucciso le prime tre mogli. E’ stato vittima di un errore giudiziario, perché il giudice l’ha assolto. Lei apprezza la sincerità e si sposano con una graziosa cerimonia notturna, il primo novembre, nel cimitero di San Pietro in Vincoli.
Finale a sorpresa. Barablù fallisce, perché data la congiuntura, pretende che i defunti portino da soli la bara al cimitero, e non fa uno sconto manco morto, anche se i cadaveri li mettono le famiglie. Salopette non ha più una lira. Per fortuna muore il patriarca della famiglia Isacco Betti, bicentenario.
Dieci mani avide, di dieci fratelli di Gaza, si avventano sul testamento, che dice. “Dividerete i duecento miliardi in parti eguali, a condizione che mi sotterriate con i restanti cento miliardi per le spese di viaggio”. Disperazione generale. Ma è un attimo. Barablù grida: “Ho trovato! Sotterriamolo con un assegno al portatore!”.
Morale genovese: prestami un milione, ti sarò eternamente debitore.
La commedia ottenne consensi e splendide recensioni. Il Corriere della Sega, organo ufficiale dei carpentieri democratici, scrisse: “Uno spettacolo delicato, altamente educativo, adatto ai bambini con spiccate tendenze sadomasochiste”.
Il Culatello di Sassuolo: “Una vicenda di sottile disperazione, magistralmente interpretata da piccoli delinquenti, diretti da una perfida caporiona delle S.S.”.
La Tampa: “Un’operetta morale, graffiate e sincera, che giustifica il suicidio di Cesare Pavese e la totale soppressione dell’infanzia abbandonata”.
La Gazzetta del Popò: “Una regista che invita all’olocausto degli innocenti”.
Lo spettacolo ebbe successo, tanto che la famiglia di Palermo, Mizzega la Meusa, ci invitò a rappresentarlo nel mattatoio del Padrino. La maestra si stava montando la testa e divenne l’amante della mafia siciliana. Pensai: minchia é questa la giustizia? I bambini lavorano e gli insegnanti prendono lo stipendio e si fanno corrompere dal primo venuto, anche troppo in fretta?!
Così decisi di arricchirmi anch’io, trafficando in cioccolate e merendine rubate. Le compravo a borsa nera, rivendendole ai miei compagni, dopo averle imbottite di droga tagliata col sale. Così gli veniva una sete mostruosa, ed io riuscii in soli sei giorni a far fuori le seimila bottigliette di Coca Ina, dimenticate dagli americani nel ’45 a casa del nonno. Poi passai all’organizzazione d’incontri clandestini fra ragazzini e ragazzine che volevano giocare al dottore, un po’ appartati.
Facevo tanti soldi, nelle cantine del quartiere, così potevo andare sempre a teatro. Mia madre era disperata, girava in casa urlando: “Ti bocceranno! Ti bocceranno!”
Voleva interrogarmi a tutti i costi. “Allora, dimmi cos’è … io sono bella?!”
“Passato remoto, mamma”.
Non ce la faceva più, tanto che non voleva più aprire bocca e dimagriva a vista d’occhio: pensate che dopo aver letto la storia di Galvani non mangiava più le rane. Temeva i corti circuiti intestinali.
Era diventata magra, magra, che figura quando si andava al ristorante! La guardavano tutti, pensando fosse la piatta del giorno. Faceva il bagno e sembrava un baccalà in umido, ma non aveva alternative, perché con la doccia non si bagnava affatto. Nervosa, tesa, non riusciva a rientrare in se perché non c’era più posto.
Il suo dramma erano la mia passione per il teatro e il commercio clandestino. Per allontanarmi dai traffici loschi volle cambiare casa e andammo a vivere in Barriera di Milano. Milano è la mia passione.
Io divenni dispettoso: “Mio Dio, ha inghiottito tutti i fiammiferi!” e mio padre “Usa pura il mia accendino per fare la frittata”.
Era un po’ cinico ma mi sosteneva: “Questo ragazzo ha del talento, diventerà un attoruccolo da quattro soldi, o un gangster da strapazzo. E’ di un’arguzia sconvolgente, sentilo: amore, se prendiamo un eschimese e lo uniamo ad altri undici eschimesi cosa otteniamo?”
“Un eschianno”
“Che bravo, vero?!”
Quell’uscita a sorpresa fece salire la mia popolarità in famiglia, non mi seccarono più, ed io continuai a coltivare la mia passione per il teatro. Tra uno spettacolino parrocchiale e una balletto rosa in cantina con le ragazzine del condominio, che già sapevano come manipolare i paesi bassi, approdai alle superiori.
Ricordo ancora i miei professori delle medie. Culturino insegnava storia. Il primo giorno di scuola ci parlò del Colosseo dove i romani giustiziavano i dissidenti che non pagavano i tributi a Cesare. Un monumento in rovina ai caduti in rovina.
Altra simpatica figura, la professoressa di disegno, dotata di grande estetica, quando si ammalava le veniva sempre un raffreddore con i fiocchi.
Il professore di scienze naturali ci svelò che i barattoli di latte condensato sono uova di mucca, e che il capretto lesso è un ottimo ovino alla coque. Ci insegnò che gli animali si amano con sentimento. Nella stagione del calore, il boa solca i mari per raggiungere la sua boa. Il bue piange e si dispera non avendo la bua e la biscia si sdoppia, lasciando al passaggio una doppia traccia, la bi-scia.
Quello fu il periodo più bello della mia vita, me la spassai un mondo e mi fidanzai. Si chiamava Emanuela Teladà, a quindici anni sapeva già cosa dare e cosa prendere. Non era bella ma faceva tipo o meglio si faceva ogni tipo, ma essendo timida i primi cinque non volle vederli e spense la luce. Insomma, una ragazzina bruttina ma conforme.
Si preoccupava molto delle sorti dell’umanità. Un pomeriggio la vedo correre da me trafelata: “Tesoro, papà dice che discendiamo dalle scimmie!”
“Calmati, ti amo lo stesso”, le dissi.
Ci conoscemmo durante un provino, il regista era incazzato: “Lei è in ritardo, e le avevo chiesto delle fotografie a mezzo busto, non alla pecorina! Lasciamo perdere, esperienze teatrali?!”
“No, purtroppo a teatro non l’ho mai fatto, ma deve essere bello nei camerini, tra le poltrone o direttamente sul palco sotto le luci dei fari, uau!”
Non andò bene, ma lei non si diede per vinta. Ci trovammo spesso a casa sua per provare una nuova commedia tragica “Nanette La Bonde”. La prima battuta era: “Belva, sei così patito, ci penso io metterti addosso un bel po’ di carne cruda!”
Ne veniva fuori quasi sempre un primo atto fantastico, anche se nei momenti di maggior trasporto orale, la sua dizione non era buona: glielo dicevo che non è educazione parlare a bocca piena.
Noi ci facevamo in quattro, in ogni parte; se io mi confondevo un po’, lei mi faceva coraggio: “Sei un attore, smettila di fare il butta fuori! Butta dentro, butta dentro!” Così all’epilogo io gridavo sempre “Bene, brava bis!”
Aveva un’energia esuberante, tanto che un pomeriggio pensammo di invitare gli amici per una prova generale. Lei si era stancata di farlo senza pubblico. Fu un vero piacere vederla in azione. Una vera professionista, e che ritmi! Li aveva tutti in pugno. Pensate che vollero venire di nuovo. Il motto di Emanuela era: “Soddisfatti o rimborsati!”
Ormai eravamo sempre a teatro, a scuola ci si andava di domenica per lanciare le pietre contro i finestroni. Una sera, mentre il pubblico applaudiva per tenersi sveglio, pensai: “Che titolo assurdo questa commedia, Il Piccolo Risparmiatore“.
Emanuela mi fa: “Lui l’ha uccisa per rubarle ventimila lire. A che cosa è servito un simile delitto?”
“Ma, sai, ventimila qui, ventimila là, alla fine della giornata fanno cifra”.
In terza, alla fine del trimestre avevo un otto, in condotta. Così il preside mi chiamò: “Va bene il teatro, ma dovresti anche studiare. Per costruirti un futuro. Guarda me che ho passato trent’anni nella scuola”
“Come? Non è mai uscito neppure per mangiare una pizza?!”
Io fui bocciato, e il preside si dimise per aprire una pizzeria.
Col passare degli anni divenni adulto, e nonostante tutto non cambiai idea. Volevo recitare. Imparai ben presto com’è dura la vita dell’attore, il cui lavoro consiste prima di tutto nel cercar lavoro. Dovevo trovare un agente che mi prendesse sotto la sua protezione: fu lui a trovarmi, durante gli scontri ad una manifestazione anti imperialista.
Finalmente mi fecero le foto, primi piani e pose di profilo. Per la prima volta i giornali parlarono di me, in prima pagina! Che emozione la prima intervista. Fino alle quattro del mattino sotto i riflettori! E che soddisfazione. Oltre a recitare, fui costretto a cantare. Un vero successo, grandi ovazioni e battimani, direttamente sulla faccia. Li accettai con entusiasmo senza ribellarmi sul balcone della questura, per non fare la fine del Pinelli.
Sbrigate le formalità di rito, il mio agente mi fece accomodare in strada complimentandosi con me in modo speciale. Sapevo già che nel mondo dello spettacolo si va avanti solo a forza di calci in culo. Dopo quella bella esperienza mi offrirono un ruolo da terrorista nella nota compagnia Le Allegre Brigate Rosse.
Vennero poi le elementari. Il primo giorno di scuola vidi uno spettacolo pietoso. Tanti bimbi di sei anni che piangevano, io compreso: secondo me ci avevano fregati. Entravano in prima classe ma i banchi erano di legno.
La simpatica maestra era un tantino tirchia: per non sprecare i quaderni ci faceva scrivere sui banchi e poi chiamava il bidello per pulire l’inchiostro, oppure raccoglieva gli scontrini nei negozi e li portava alla sua assicurazione. Pretendeva che trenta scontrini le dessero il diritto a chiedere il premio per uno scontro.
Quando ebbi dodici anni, volle organizzare una recita scolastica e scrisse personalmente, il copione, intitolandolo: “Salopette ha molti peli sulla lingua e non sono suoi”.
Lo spettacolo narrava la storia di una principessa ripudiata da re Salamone perché si addormentava sul pisello. Fuggita da palazzo, la giovane prende molte lezioni di equitazione da un gruppo d’istruttori negri e finalmente impara a cavalcare.
Nel secondo tempo, la principessa Salopette accetta l’invito a cena di Giacobbe Betti, un impresario ebreo di pompe funebri, detto anche Barablù. L’uomo chiude il suo negozio e appende alla saracinesca un cartello con scritto “Chiuso per letto”.
Scena clou della commedia, a casa di lui. Il pendolo suona le ventiquattro, ma sono già le ventiquattro e trentuno. E’ un orologio dimissionario, rifiuta la carica.
Barablù s’innamora istantaneamente delle tette di Salopette e le confessa di aver subìto un processo per aver ucciso le prime tre mogli. E’ stato vittima di un errore giudiziario, perché il giudice l’ha assolto. Lei apprezza la sincerità e si sposano con una graziosa cerimonia notturna, il primo novembre, nel cimitero di San Pietro in Vincoli.
Finale a sorpresa. Barablù fallisce, perché data la congiuntura, pretende che i defunti portino da soli la bara al cimitero, e non fa uno sconto manco morto, anche se i cadaveri li mettono le famiglie. Salopette non ha più una lira. Per fortuna muore il patriarca della famiglia Isacco Betti, bicentenario.
Dieci mani avide, di dieci fratelli di Gaza, si avventano sul testamento, che dice. “Dividerete i duecento miliardi in parti eguali, a condizione che mi sotterriate con i restanti cento miliardi per le spese di viaggio”. Disperazione generale. Ma è un attimo. Barablù grida: “Ho trovato! Sotterriamolo con un assegno al portatore!”.
Morale genovese: prestami un milione, ti sarò eternamente debitore.
La commedia ottenne consensi e splendide recensioni. Il Corriere della Sega, organo ufficiale dei carpentieri democratici, scrisse: “Uno spettacolo delicato, altamente educativo, adatto ai bambini con spiccate tendenze sadomasochiste”.
Il Culatello di Sassuolo: “Una vicenda di sottile disperazione, magistralmente interpretata da piccoli delinquenti, diretti da una perfida caporiona delle S.S.”.
La Tampa: “Un’operetta morale, graffiate e sincera, che giustifica il suicidio di Cesare Pavese e la totale soppressione dell’infanzia abbandonata”.
La Gazzetta del Popò: “Una regista che invita all’olocausto degli innocenti”.
Lo spettacolo ebbe successo, tanto che la famiglia di Palermo, Mizzega la Meusa, ci invitò a rappresentarlo nel mattatoio del Padrino. La maestra si stava montando la testa e divenne l’amante della mafia siciliana. Pensai: minchia é questa la giustizia? I bambini lavorano e gli insegnanti prendono lo stipendio e si fanno corrompere dal primo venuto, anche troppo in fretta?!
Così decisi di arricchirmi anch’io, trafficando in cioccolate e merendine rubate. Le compravo a borsa nera, rivendendole ai miei compagni, dopo averle imbottite di droga tagliata col sale. Così gli veniva una sete mostruosa, ed io riuscii in soli sei giorni a far fuori le seimila bottigliette di Coca Ina, dimenticate dagli americani nel ’45 a casa del nonno. Poi passai all’organizzazione d’incontri clandestini fra ragazzini e ragazzine che volevano giocare al dottore, un po’ appartati.
Facevo tanti soldi, nelle cantine del quartiere, così potevo andare sempre a teatro. Mia madre era disperata, girava in casa urlando: “Ti bocceranno! Ti bocceranno!”
Voleva interrogarmi a tutti i costi. “Allora, dimmi cos’è … io sono bella?!”
“Passato remoto, mamma”.
Non ce la faceva più, tanto che non voleva più aprire bocca e dimagriva a vista d’occhio: pensate che dopo aver letto la storia di Galvani non mangiava più le rane. Temeva i corti circuiti intestinali.
Era diventata magra, magra, che figura quando si andava al ristorante! La guardavano tutti, pensando fosse la piatta del giorno. Faceva il bagno e sembrava un baccalà in umido, ma non aveva alternative, perché con la doccia non si bagnava affatto. Nervosa, tesa, non riusciva a rientrare in se perché non c’era più posto.
Il suo dramma erano la mia passione per il teatro e il commercio clandestino. Per allontanarmi dai traffici loschi volle cambiare casa e andammo a vivere in Barriera di Milano. Milano è la mia passione.
Io divenni dispettoso: “Mio Dio, ha inghiottito tutti i fiammiferi!” e mio padre “Usa pura il mia accendino per fare la frittata”.
Era un po’ cinico ma mi sosteneva: “Questo ragazzo ha del talento, diventerà un attoruccolo da quattro soldi, o un gangster da strapazzo. E’ di un’arguzia sconvolgente, sentilo: amore, se prendiamo un eschimese e lo uniamo ad altri undici eschimesi cosa otteniamo?”
“Un eschianno”
“Che bravo, vero?!”
Quell’uscita a sorpresa fece salire la mia popolarità in famiglia, non mi seccarono più, ed io continuai a coltivare la mia passione per il teatro. Tra uno spettacolino parrocchiale e una balletto rosa in cantina con le ragazzine del condominio, che già sapevano come manipolare i paesi bassi, approdai alle superiori.
Ricordo ancora i miei professori delle medie. Culturino insegnava storia. Il primo giorno di scuola ci parlò del Colosseo dove i romani giustiziavano i dissidenti che non pagavano i tributi a Cesare. Un monumento in rovina ai caduti in rovina.
Altra simpatica figura, la professoressa di disegno, dotata di grande estetica, quando si ammalava le veniva sempre un raffreddore con i fiocchi.
Il professore di scienze naturali ci svelò che i barattoli di latte condensato sono uova di mucca, e che il capretto lesso è un ottimo ovino alla coque. Ci insegnò che gli animali si amano con sentimento. Nella stagione del calore, il boa solca i mari per raggiungere la sua boa. Il bue piange e si dispera non avendo la bua e la biscia si sdoppia, lasciando al passaggio una doppia traccia, la bi-scia.
Quello fu il periodo più bello della mia vita, me la spassai un mondo e mi fidanzai. Si chiamava Emanuela Teladà, a quindici anni sapeva già cosa dare e cosa prendere. Non era bella ma faceva tipo o meglio si faceva ogni tipo, ma essendo timida i primi cinque non volle vederli e spense la luce. Insomma, una ragazzina bruttina ma conforme.
Si preoccupava molto delle sorti dell’umanità. Un pomeriggio la vedo correre da me trafelata: “Tesoro, papà dice che discendiamo dalle scimmie!”
“Calmati, ti amo lo stesso”, le dissi.
Ci conoscemmo durante un provino, il regista era incazzato: “Lei è in ritardo, e le avevo chiesto delle fotografie a mezzo busto, non alla pecorina! Lasciamo perdere, esperienze teatrali?!”
“No, purtroppo a teatro non l’ho mai fatto, ma deve essere bello nei camerini, tra le poltrone o direttamente sul palco sotto le luci dei fari, uau!”
Non andò bene, ma lei non si diede per vinta. Ci trovammo spesso a casa sua per provare una nuova commedia tragica “Nanette La Bonde”. La prima battuta era: “Belva, sei così patito, ci penso io metterti addosso un bel po’ di carne cruda!”
Ne veniva fuori quasi sempre un primo atto fantastico, anche se nei momenti di maggior trasporto orale, la sua dizione non era buona: glielo dicevo che non è educazione parlare a bocca piena.
Noi ci facevamo in quattro, in ogni parte; se io mi confondevo un po’, lei mi faceva coraggio: “Sei un attore, smettila di fare il butta fuori! Butta dentro, butta dentro!” Così all’epilogo io gridavo sempre “Bene, brava bis!”
Aveva un’energia esuberante, tanto che un pomeriggio pensammo di invitare gli amici per una prova generale. Lei si era stancata di farlo senza pubblico. Fu un vero piacere vederla in azione. Una vera professionista, e che ritmi! Li aveva tutti in pugno. Pensate che vollero venire di nuovo. Il motto di Emanuela era: “Soddisfatti o rimborsati!”
Ormai eravamo sempre a teatro, a scuola ci si andava di domenica per lanciare le pietre contro i finestroni. Una sera, mentre il pubblico applaudiva per tenersi sveglio, pensai: “Che titolo assurdo questa commedia, Il Piccolo Risparmiatore“.
Emanuela mi fa: “Lui l’ha uccisa per rubarle ventimila lire. A che cosa è servito un simile delitto?”
“Ma, sai, ventimila qui, ventimila là, alla fine della giornata fanno cifra”.
In terza, alla fine del trimestre avevo un otto, in condotta. Così il preside mi chiamò: “Va bene il teatro, ma dovresti anche studiare. Per costruirti un futuro. Guarda me che ho passato trent’anni nella scuola”
“Come? Non è mai uscito neppure per mangiare una pizza?!”
Io fui bocciato, e il preside si dimise per aprire una pizzeria.
Col passare degli anni divenni adulto, e nonostante tutto non cambiai idea. Volevo recitare. Imparai ben presto com’è dura la vita dell’attore, il cui lavoro consiste prima di tutto nel cercar lavoro. Dovevo trovare un agente che mi prendesse sotto la sua protezione: fu lui a trovarmi, durante gli scontri ad una manifestazione anti imperialista.
Finalmente mi fecero le foto, primi piani e pose di profilo. Per la prima volta i giornali parlarono di me, in prima pagina! Che emozione la prima intervista. Fino alle quattro del mattino sotto i riflettori! E che soddisfazione. Oltre a recitare, fui costretto a cantare. Un vero successo, grandi ovazioni e battimani, direttamente sulla faccia. Li accettai con entusiasmo senza ribellarmi sul balcone della questura, per non fare la fine del Pinelli.
Sbrigate le formalità di rito, il mio agente mi fece accomodare in strada complimentandosi con me in modo speciale. Sapevo già che nel mondo dello spettacolo si va avanti solo a forza di calci in culo. Dopo quella bella esperienza mi offrirono un ruolo da terrorista nella nota compagnia Le Allegre Brigate Rosse.