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Notturno torinese

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Una birra scura ed Enrico Ruggeri, con quella faccia un po’ così, con l’espressione un po’ così, da concupiscenza prolungata. Troppo sesso fa cadere i capelli, me lo diceva sempre la nonna. Mi siedo? Cammino? Cammino, mi aggiro per il locale alla cerca della terra promessa. E’ sempre la solita storia, qui non cambia mai niente, sussurra lo sbrindellato rasta, impegnato a reggere un muro con le spalle, mentre si arrotola una sigaretta di Samson. Guarda con negligenza il monitor che sputa sabbatici video clip. Le ore piccole iniziano a mezzanotte e un minuto, e ci puoi giurare che una mattonata sui coglioni è più salutare. Ammirate, ammirate, le fascinose astuzie della notte! La noia ti penetra nella pelle, ti disintegra le ossa. Senza ironia. Ci togliamo persino il saluto, una smorfia, un mugugno e via, a vomitarci addosso infami litanie sul destino degli artisti in questa ex metropoli agonizzante.   

L’arroganza balla sui soffitti a testa in giù. Ed io mi trovo in un mondo di folli che danzano come invasati, incollati con i piedi al metaforico soffitto del successo. Sono alienati che si credono alternativi, geniali, innovativi. Loro hanno le idee giuste! Sono folli, come può esserlo lo zero dei tarocchi, s’intende, senza alcun’offesa. In questa demenza sta il peccato originale della conoscenza e l’arrogante auto celebrazione di Caino, una superbia che può portare all’omicidio del fratello. Questa è la bassa natura umana, ma senza esibizionisti e ottusi spartani non ci sarebbe mai stata competizione, né perfezionamento d’arti, scienze e lettere. Artisti, poeti, esploratori, inventori e santi non sarebbero mai nati. 
E’ altrettanto vero che senza provetti ragazzi di bottega, decoratori, coloristi e saldatori, i più grandi artisti non potevano realizzare dipinti e sculture per invadere il mercato. La scelta è sempre stata questa: schiavo o padrone, impiegato dell’arte o protagonista. Io, invece, sono un povero disgraziato, libero, ed è un male. Non posso farci niente. 

Ho in me una sorta d’impossibilità ad obbedire, tanto per citare Chateaubriand. Sono un Buddha che soffia tanto sulle ali delle farfalle quanto nei cocktail delle feste. Non scavo trappole di vendetta, larghe e profonde, per attirare chi mi sta antipatico, ma per non caderci io. Non appartengo a nessun regno, non ho sete di quelle acque, né fame di quelle frutta, perché chi crede d’essere colui che agisce, è colui che soffre. Eppure ci sono sempre, nei centri sociali come alle cene degli orchestrali del Regio o in pizzeria, con i comici che alla fine andranno a ‘fan Zelig. In questo spazio, da loro immaginato come più elevato, s’accende in me una sorta d’euforia tesa al giudizio: a volte all’invidia, altre al disprezzo. L’invidia la riservo a chi riesce bene, nel fare qualunque cosa, il disprezzo a chi vuole provarci lo stesso, facendo magre figure. Tanto non posso essere paragonato a nessuno. 

Io guardo, ascolto e registro, registro così bene che se volessi scrivere tutto ciò che so, qualcuno potrebbe far finta di offendersi. Ma non ci tengo a provocare dispute, voglio solo giocare, senza insultare. Di cosi detti grandi, ma anche medi, ne ho conosciuti molti. Fanno parte della mia vita ed avrei tutto il diritto di parlarne per smascherare il loro mondo piccino. Anche nel mio caso, l’arroganza balla sui soffitti a testa in giù.   
Come volevasi dimostrare: “Ehi, sono Alberto, ti ricordi di me… la cena a casa di Marta, che poi te le sai fatta su…” E come no, sto scassa palle. “Siediti che ti offro una birra. Tu che sei del giro, non conosci nessuno disposto a produrmi?” Ha il volto cadaverico. 
“Un produttore” gli chiedo, “ma di cosa?” 
“Uno qualunque, cinema, teatro, discografico, uno che capisce, investe sui talenti… ho un’idea giusta al cento per cento.” L’idea è buona… non male, il ragazzo intelligente, pronto, si sente che ha studiato, è ancora entusiasta, ci crede. 
 “Hai provato a Milano?” gli domando, provocatorio. 
“Sì, ma è una giungla, non so dove andare, nessuno mi riceve. Vorrei lavorare nella mia città, sento che si sta muovendo qualcosa.” Certo, si muove la ventola del condizionatore: che bel ronzio… penso io. 

“Ce l’hai un piccolo capitale per iniziare? Un prestito ti farebbe comodo, risolverebbe. Affitti il tuo bel teatro e vieni fuori alla grande! Una sovvenzione comunale, provinciale, europea, che ne so, ne danno tante…” Mi guarda con aria assente. Ha gli occhi lucidi: sta per piangere o non regge il rum. 
“Sono al verde, non ho neanche i soldi per pagare l’affitto, però Tizio ha messo su il suo spettacolo, e Caio ha venduto un video a Rai 3. Loro ce l’hanno fatta…” Fatta, è presto per cantar vittoria, cocco. “Blà, blà, blà…” 
“Senti, stop, fermati! Tizio è nipote del Presidente Supremo e il padre di Caio finanzia la Fondazione Vattelapesca. Lo sapevi?” 
“No, quei bastardi, se la tirano come se fosse merito loro!” “
E vengono a dirlo a te se hanno i ganci giusti. Testone.” 
“Quelli saltano su dal niente e fanno fortuna, e io aspetto lo sfratto da un giorno all’altro: che sfiga, sono proprio depresso.” 
“Hai ragione a demoralizzarti, perché ti mancherà sempre una cosa per diventare famoso: essere nato nella casta superiore.” Volge lo sguardo verso l’uscita, ma prima di telare scommetto sulla testa di sua cugina che mi parla dell’America, mi ci gioco le palle… di Berlusconi. 
“Negli States è tutta un’altra musica, rischiano, se hai l’idea… comprano a scatola chiusa, anche da uno zero. Quello sì che è un paese libero e democratico!” 
Inizia la crisi a stelle e strisce. Devo togliermelo dai piedi. “Senti… perché non vai a New York allora?!” 
“Fai presto tu…” 
“Tieni, ho giusto un biglietto last minute per domattina alle otto. Te lo regalo, tanto l’ho pagato poco. Io non posso andarci.” 
“Domattina? Ma… le valigie, la mamma, la mia ragazza… come faccio, così su due piedi?” 
“Ah già, dimenticavo… non te la senti proprio di fare il lavapiatti nel Bronx per anni.”


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