INVASIONE ALIENA
Pautasso, nella vita ordinaria era un impiegato ordinario: usciva ogni mattina alle sette, chiudeva la porta sbadigliando con ferocia, per poi catapultarsi con rabbia giù dalle scale, nella speranza di cadere, sfracellandosi al suolo, per poter urlare indicibili parolacce contro quel porco lì e quel porco là.
Questo pensiero lo consolava immensamente, quando apriva gli occhi dopo una notte ordinaria, trascorsa a non chiudere occhio.Invariabilmente, le gambe lo conducevano in perfetto sincronismo, alla poltroncina del suo ufficio. Per meglio dire, dell’ufficio dell’ingegner Rizzi Arnaldo, padrone |
assoluto e aguzzino dei suoi giorni passati, presenti e futuri.
Nella postazione di Corso Svizzera, preciso come un cronografo, l’ingegnere Rizzi alle otto e trenta in punto, iniziava a leggere il quotidiano d’economia, comodamente spaparanzato sul morbido divano di vera finta pantera, assaporando una tazzina di caffé pura arabica transgenica. Oscar Pautasso, poggiando stancamente i gomiti consunti sulla scrivania, guardava lo schermo del suo computer per mezz’ora, senza accenderlo.
La macchina (un ordinario multivisore tra miliardi di multivisori inseriti nella rete mondiale, controllata dalla Polizia Informatica) avrebbe dovuto attendere parecchio la sua decisione d’immettere codice vocale, impronta iridica e digitale. Oscar non era in grado di prenderla, quella decisione, perché stava ancora digerendo con disgustosa fatica, la ciofeca bevuta a casa.
Meditava, Oscar, fatture, comunicazioni commerciali, bilanci, culetti, tettine, cosce e culoni (la sua specialità). La pornografia gli pulsava nel cervello come un ritmo campionato, ossessivo, riducendolo ad una poltiglia di sensazioni imprecise. Gli immensi reparti della sua testa erano come carcami d’archeologia industriale, una conceria abbandonata, dove milioni di pensieri imbecilli rompevano i coglioni con interminabili feste rave.
Oscar, mago delle ingiurie e dei rabberciamenti contabili, nelle lunghe ore passate a coprire gli ammanchi e le misteriose dipartite di capitale operate dall’ingegnere, aveva tutto il tempo per riandare a quei giorni felici, tanto felici, ma così felici che persino Beckett sarebbe riuscito a sorridere. Una memoria quella, dove il sesso non doveva sognarlo sui patinati canali digitali, che baciano malissimo, ma baciando benissimo poteva praticarlo con Lina, in quella vecchia soffitta di Via San Massimo, dove ci pioveva dentro ma era tanto romantica. Oh, i baci di Lina! Dolcissima, la sua calabresella con i capelli neri a caschetto, il nasino aguzzo ed un musetto furbo da volpetta. L’adorava perché emanava un soave profumo di fanciullezza: un metro e sessanta di passione e felicità. Non c’erano problemi, riuscivano a prendersi tre o quattro volte in un solo pomeriggio, anche nel gelo più assoluto, con una stufa a legna che restava accesa appena il tempo di ficcarsi sotto le coperte. Era incantevole, Lina: un angelo innocente e vizioso, un incontro ravvicinato con il cielo dell’umidità primitiva. L’aveva lasciata perché era un cretino, l’amava e l’avrebbe rimpianta, per sempre.
La pensava anche quando abbandonava la scrivania per la pausa di pranzo. Si sentiva alleggerito. Gli pareva di librarsi fra le nuvole, ricordandola e gli si aprivano orizzonti infiniti: il Bar Fasson! Ordinava sempre due toast, una birra estera in bottiglia e la famosa macedonia di frutta, che la signorina Giuliana preparava ogni giorno con le sue deliziose manine.
Giuliana gestiva il locale da un mese. Era una bella ragazzona, alta, estroversa, dalle proporzioni non perfette ma animose: gambe lunghe, seno palpitante, fianchi larghi, culo grosso (un po’ basso) e capelli neri, che le scendevano su ampie spalle ben tornite, incorniciando una volto marcato, forse mascolino ma non volgare, dominato da una bocca carnosa e seducente. Occhi verdi: lenti a contatto colorate?
Un giorno identico a quelli che lo avevano preceduto, Giuliana riportò in vita Oscar, assorto nei suoi pensieri esaltanti: andare a casa a dormire. Gli porse un boccale di birra alla spina. La giovanotta desiderava incontrarlo in privato, ma aveva atteso sino ad allora per non insospettirlo. Riuscì a strappare ad Oscar un invito a cena per il sabato successivo. Lui detestava uscire la sera con le sconosciute, preferiva di gran lunga sbattersi sul divano, nella sua splendida ed ovattata depressione a leggere Topolino o raramente un giallo di Rex Stout, abbandonato invariabilmente mezz’ora dopo al gabinetto. Rex Stout diveniva in senso lato, un bene d’uso igienico. Invece House’s Pens e Day Boy! le adorava a tal punto d’aver abbandonato la casa paterna per affittarne una che avesse una grande stanza dove sistemare ben dieci annate complete delle riviste nonché altri oggetti di piacere acquistati per corrispondenza.
Giuliana era splendida quel sabato sera: vestito di seta blu con abbondanti spacchi laterali. Scarpette scollate di vernice nera, dotate di vertiginosi tacchi a spillo, calze velate con riga posteriore d’ordinanza.
L’intimità era così concepita: perizoma nero. Il viso? Raggiante, vivificato da tenui colori pastello attorno agli occhi, un tocco di fard e un bel rossetto lucido e provocante. Il tutto esaltato dai lunghi capelli neri, serici e lucenti. Dentro divampava il fuoco del purgatorio.
Pautasso era molto stanco, abbrutito da una notte tinta d’incubi paurosi e da una giornata perfettamente inutile. Non era sicuro di voler uscire. L’appuntamento lo lasciava del tutto indifferente, o almeno, questo si raccontava. Giuliana gli piaceva, ma lo possedeva anche un pessimo carattere: dare per avere. Lei gli avrebbe donato una cosa che sognava giorno e notte, ma avrebbe domandato o preteso un contraccambio. Il motto “Se io do una cosa a te, tu poi dai una cosa a me…” non è sempre applicabile alle donne. Il baratto così concepito potrebbe essere considerato non tanto un bilancio in pareggio, quanto un affronto da lavare con le lacrime e poi col sangue. O viceversa. Aveva paura, ma la sua libidine sapeva contrastare l’angoscia. La consapevolezza di non poter reggere un infimo contraddittorio lo terrorizzava; sarebbe passato dalla parte del torto. Pregustava la sua impotenza: “Oscar, sei un egoista! Perché non mi telefoni più! Credevo che fossi diverso dagli altri. Volevi solo farti una scopata!”
Dio, Dio, avrebbe dovuto cambiare anche bar! Ed era il meno; sarebbe finita con la sostituzione del numero di telefono e della serratura di casa, sì, perché mica era possibile farsene solo una, prima o poi, cedendo alle tentazioni serali, gliela avrebbe data la chiave di casa! Dio, Dio. Radendosi si tagliò cinque o sei volte, gli caddero gli occhiali e una lente andò in mille pezzi. Quando si dice… le frasi fatte! Eppure erano proprio mille. Uscì alle venti e venticinque, con un ritardo di soli cinque minuti.
Felicità! Cenando, Giuliana non volle sapere quanto valeva in termini monetari, non accennò al lavoro, non chiese come Oscar passasse il tempo libero e le vacanze, non volle sapere quanto guadagnava, ne se avesse rendite o proprietà. Non s’interessò minimamente al suo passato, all’adolescenza, all’infanzia, ai complessi edipici. Parve accendersi per i maltagliati alla panna, il filetto al pepe verde e il Barolo. Espresse parere favorevole nei confronti del cinema americano dei bei tempi andati, esaltando Frank Capra e John Ford. Pautasso l’ascoltava stupito. Lo stupore si trasformò in incredulità quando Giuliana rifiutò di farsi pagare la cena, pregandolo di accettarla per quello che era: una donna che ci tiene alla propria dignità. Il nostro pallido eroe, annaspando compiaciuto, lasciò che fosse lei a tenere la porta aperta per farlo uscire dal locale.
Giuliana lo caricò sulla sua auto sportiva decappottabile, infilò un disco nel lettore che subito riprodusse un frenetico ritmo psico drum. Accese il motore, partì, accelerò facendo fischiare le ruote. Nel tentativo di spiegarsi cosa stesse accadendo, disse a se stesso che c’era sotto qualcosa. Lo aveva anticipato, era lei che recitava la parte della giovane emancipata che vuole solo passare una bella serata, terminandola a letto senza problemi. Tutto ciò gli facilitava tremendamente le cose, si era messa in trappola: non le avrebbe permesso di tirarsi indietro all’ultimo momento. Sarebbe stato troppo tardi per rifiutarsi di dare. Lei avrebbe dato, ah se avrebbe dato, e lui avrebbe preso, ah se avrebbe preso. Pautasso desiderava ormai da tempo immemorabile. Già sudava al solo pensiero di un corpo nudo, ma nulla è più fugace del piacere fisico, come nulla è più caduco della torta di compleanno, che prima splende in tutta la sua panna con i canditi e le candeline e poi scompare sino a diventare un cumulo di briciole, di granelle, di zuccherini multicolori, di sbafi di crema immangiabile, sparsa sul piatto di portata. Essa muta come i fiori di ciliegio all’apparire del caldo afoso. E dopo l’abbuffata gli effluvi di rum aleggiano nell’aria e prendono lo stomaco.
Faceva tutto lei. Che disgusto. Era troppo. La mente di Oscar Pautasso si riempì di scandalo. Giuliana cantava tenendo saldamente il volante, lui taceva. Non riusciva ad immaginare dove lo stesse portando quel mostro di femmina e non osava chiederglielo.
“Ti piace correre?!”, domandò Giuliana.
“Non mi succede spesso”, rispose Pautasso, tenendo d’occhio il contachilometri, che diceva centotrenta.
“Hai paura, ti caghi sotto, dillo?! Non ti preoccupare, non ho mai cuccato un incidente, e sono anni che guido, macchine più complicate di queste!” Era vero.
“Dai, rilassati, dove andiamo?”
Oscar Pautasso, sempre più pallido, propose: gita al lago di Candia, gelato, cine e bowling.
La donna rise: “Sei matto, sei proprio fuori di testa! Perché vuoi perdere tempo? Ti porto a casa mia, okay?!”
“Come dici? Non vorrei disturbare.” Singhiozzò Oscar.
“Timidone, non meniamocela tanto. Ho un progetto speciale che ti riguarda molto da vicino.”
Il dottor Oscar Pautasso, laureato in economia e commercio ma che faceva il contabile e non contava niente, non riusciva a fare i conti con una realtà sconosciuta, che mal rispondeva alle leggi economiche del dare e dell’avere.
C’era l’offerta anche senza domanda: “Non afferro, vorresti essere più chiara?”, si limitò a chiedere. Eppure al Bar Dino & Dina e al Circolo della Scopa, lo consideravano una personalità carismatica, di gran rilievo oratorio.
“Sei così carino tu, hai un’aria sminchiata… sta sera non ti lascio se non dopo averti sconvolto, lo giuro sui Rolling Stones!” Rise, terribile.
Il tachimetro segnava centottanta, parecchio, anche per una tangenziale. Lo stava sconvolgendo eccome, il cuore gli schiattava in gola per la paura. Lui, che aveva tentato, otto volte, di superare l’esame di guida senza successo, si vedeva schiavo d’una donna che probabilmente aveva studiato all’autodromo di Monza. Considerava questa situazione intollerabile e vergognosa, ma lei continuava ad accarezzargli i capelli, ripetendo: “Dai, rilassati, fra meno di dieci minuti il tuo imbarazzo finirà in paradiso. Ti sconvolgerò, vedrai!”
Iniziò a sconvolgerlo venti minuti dopo, senza darci il tempo di guardare com’è arredata la casa. Il Pautasso non se la sentiva di sbandare pericolosamente. Mentre le toccava i seni, iniziò nella sua testa una cantilena dell’impossibilità: “Niente nere, niente slave, niente amiche occasionali delle amiche abituali, e neanche amiche abituali delle amiche occasionali, e soprattutto mai con le sconosciute! Perché, io, sono un uomo rude, posso benissimo restare senza amore per mesi, anni, secoli.”
Oscar si era lasciato andare, permettendo a Giuliana di scivolare giù per riempirsi la bocca della sua brama. Il corpo a corpo diventò stretto, quando il dottor Pautasso percepì qualcosa d’eccentrico sbucare dalle mutande di lei, come un clown a molla che scatta su da una scatola a sorpresa. Quella sensuale femminilità nascondeva un segreto.
L’esitazione durò un attimo, ma la ragazzona non si scoraggiò, accettò quegli eterni secondi di dubbio, poi liberò il brioso saltimbanco: “Te l’ho detto che ti avrei sconvolto”, disse tranquilla.
Oscar era pronto alla fuga, ma Giuliana, più rapida del pensiero, gli imprigionò mani e caviglie con delle manette, lasciandolo bocconi a dimenarsi e ad ansimare. Giuliana rivelando una forza erculea riuscì a tenerlo fermo per poi insinuarsi con severità fra le sue natiche. La tenerezza divenne una furia belluina che lo colmò. Il classico colpo di fulmine.
“Ti piace?” gli sussurrava in un orecchio, con la voce più sensuale e femminile del mondo.
Oscar si sentiva ingannato dal marxismo e soggiogato da un peso tenace sulla schiena e sulle spalle. Si sentì come una bottiglia sturata, quando lei ritrasse il clown…
“Tesoro, tutto okay?”, disse Giuliana.
“Non chiamarmi tesoro!”
“E perché? Suona così bene… sei carino, ma continui ad avere un’aria sminchiata. Ti preparo un ovetto sbattuto con il marsala.”
“L’uovo sbattuto no, piuttosto toglimi le manette!” urlò.
Giuliana, in ginocchio sul letto, lo guardava inespressiva. Il suo pene non voleva saperne di afflosciarsi. Oscar piagnucolava, digrignando i denti come un bambino spaventato. Tentò di trovare una via d’accesso alla sua disperazione: “Senti, lo so che non ci crederai, ma io sono una donna extraterrestre.”
“Tu sei pazzo, pazzo e frocio!”
“Amore mio, l’inquinamento e la schizofrenia vi stanno distruggendo, noi stiamo cercando di salvare l’umanità dalla distruzione iniettando in voi una genetica incorruttibile. Non più il DNA ma il GNA, l’acido genionucleico che può essere trasmesso solo durante l’accoppiamento e per via rettale.”
“Come una supposta?!” urlò il Pautasso, alzandosi dal letto per sistemarsi il collo di Giuliana fra le mani. Con la rabbia alla bocca e il cervello che gli colava dalle orecchie, Oscar torse più forte la parte terminale di quella spina dorsale.
Giuliana, nell’impossibilità di esprimere un parere, presa dall’obbligo di rantolare, pensò: “Proprio io che non ho mai voluto programmare il mio settore didattico cerebrale, dovevo capitare in questo stupido XXI secolo. Come faccio a farmi capire da sto contemporaneo delle mie sinapsi!?”
Con gesto meccanico aprì la bocca per eruttare un impercettibile fuoco azzurrino: la solita acidosi, causata dall’eccesso di ossigeno nel sangue, governato dall’ammoniaca. L'esalazione piombò sul volto del Pautasso, che perse conoscenza. Lei non si scompose, non godeva nel guardare quel viso leggermente ustionato. Rifuggiva da emozioni e sentimenti. Lo osservava e basta. Increspò le labbra in attesa del rinvenimento.
“Già” ponderò, “non possono esigere che capisca: io arrivo dal mio bel millennio evoluto ed esigo! Il fatto è che non sono preparata a insegnare... Oscar Pautasso, nella vita ordinaria, è un impiegato ordinario, che va ad un lavoro ordinario ogni mattina alle sette, per poter urlare parolacce indicibili contro quel porco lì e quel porco là!!”
“E’ soverchiamente lento di cervello”, disse il professor Luxus Urlaub, concretandosi nella stanza. Seppure ancora vago, ma in tutta la sua imponenza elettrica, proseguì: “Darei ordine a tale concetto, affermando che questo essere è insopportabile?”
Giuliana sapeva che Luxus sarebbe arrivato per dirigere l’operazione ed attivare la fecondazione. Però era in ritardo: negli ultimi secoli aveva sempre problemi di messa punto dei sistemi di trasporto dimensionali ma, cosa ancor più grave, non riusciva a integrare perfettamente le federazioni di coscienze nei condomini fisici. Così portò a termine la modificazione vibrazionale del suo eterico e addizionò la consapevolezza al livello fisico senza materializzare un nuovo corpo. Si ritrovò all'interno di Giuliana, una delle abitazioni più confortevoli della terra. Le due percezioni si riconobbero, ma non si fusero. Decisero di restare indipendenti, conservando consapevolezza l’una dell’altra.
Era un’impresa difficile salvare e far evolvere tutti i terrestri che conservavano il codice genetico antico. “Faticoso e impegnativo”, comunicò mentalmente Luxus a Giuliana, che lo ospitava.
“Questa settimana devi sodomizzarne altri otto umani, tre maschi e cinque femmine.”
“Ma Oscar mi piace, vorrei fidanzarmi con lui”, rispose.
“Lo sai qual è il tuo compito?!”
”L’inseminazione.”
“Appunto, mi stupisco che patologie da primitivi, come l’amore e l’individualità possano ancora toccarti”, concluse Luxus.
Giuliana ritornò in sè: “In fondo è buono, mi porta in tournée senza farmi leggere il calendario. Se sapessi dove devo andare, sarebbe molto più noioso.”
Quella rossa sbalorditiva che passeggiava in Via Della Spiga leccando un gelato alla fragola, era sicuramente lesbica. Il sole del tramonto, accarezzava il suo viso lentigginoso, e sottili palpiti di vento dolciastro ne penetravano gli intimi accessi, facendosi largo sotto la gonna di seta a fiori. Giuliana valutò quei seni minuti e fragili ma duri come coppe di cristallo, che attendevano labbra in deliquio, ansiose di inebriarsi… scese dallo spider per scambiare quattro chiacchiere alla moda, chissà se una diversa terrestre avrebbe accettato di farsi sodomizzare dalla prima venuta? Decise di farla sua.
Nella postazione di Corso Svizzera, preciso come un cronografo, l’ingegnere Rizzi alle otto e trenta in punto, iniziava a leggere il quotidiano d’economia, comodamente spaparanzato sul morbido divano di vera finta pantera, assaporando una tazzina di caffé pura arabica transgenica. Oscar Pautasso, poggiando stancamente i gomiti consunti sulla scrivania, guardava lo schermo del suo computer per mezz’ora, senza accenderlo.
La macchina (un ordinario multivisore tra miliardi di multivisori inseriti nella rete mondiale, controllata dalla Polizia Informatica) avrebbe dovuto attendere parecchio la sua decisione d’immettere codice vocale, impronta iridica e digitale. Oscar non era in grado di prenderla, quella decisione, perché stava ancora digerendo con disgustosa fatica, la ciofeca bevuta a casa.
Meditava, Oscar, fatture, comunicazioni commerciali, bilanci, culetti, tettine, cosce e culoni (la sua specialità). La pornografia gli pulsava nel cervello come un ritmo campionato, ossessivo, riducendolo ad una poltiglia di sensazioni imprecise. Gli immensi reparti della sua testa erano come carcami d’archeologia industriale, una conceria abbandonata, dove milioni di pensieri imbecilli rompevano i coglioni con interminabili feste rave.
Oscar, mago delle ingiurie e dei rabberciamenti contabili, nelle lunghe ore passate a coprire gli ammanchi e le misteriose dipartite di capitale operate dall’ingegnere, aveva tutto il tempo per riandare a quei giorni felici, tanto felici, ma così felici che persino Beckett sarebbe riuscito a sorridere. Una memoria quella, dove il sesso non doveva sognarlo sui patinati canali digitali, che baciano malissimo, ma baciando benissimo poteva praticarlo con Lina, in quella vecchia soffitta di Via San Massimo, dove ci pioveva dentro ma era tanto romantica. Oh, i baci di Lina! Dolcissima, la sua calabresella con i capelli neri a caschetto, il nasino aguzzo ed un musetto furbo da volpetta. L’adorava perché emanava un soave profumo di fanciullezza: un metro e sessanta di passione e felicità. Non c’erano problemi, riuscivano a prendersi tre o quattro volte in un solo pomeriggio, anche nel gelo più assoluto, con una stufa a legna che restava accesa appena il tempo di ficcarsi sotto le coperte. Era incantevole, Lina: un angelo innocente e vizioso, un incontro ravvicinato con il cielo dell’umidità primitiva. L’aveva lasciata perché era un cretino, l’amava e l’avrebbe rimpianta, per sempre.
La pensava anche quando abbandonava la scrivania per la pausa di pranzo. Si sentiva alleggerito. Gli pareva di librarsi fra le nuvole, ricordandola e gli si aprivano orizzonti infiniti: il Bar Fasson! Ordinava sempre due toast, una birra estera in bottiglia e la famosa macedonia di frutta, che la signorina Giuliana preparava ogni giorno con le sue deliziose manine.
Giuliana gestiva il locale da un mese. Era una bella ragazzona, alta, estroversa, dalle proporzioni non perfette ma animose: gambe lunghe, seno palpitante, fianchi larghi, culo grosso (un po’ basso) e capelli neri, che le scendevano su ampie spalle ben tornite, incorniciando una volto marcato, forse mascolino ma non volgare, dominato da una bocca carnosa e seducente. Occhi verdi: lenti a contatto colorate?
Un giorno identico a quelli che lo avevano preceduto, Giuliana riportò in vita Oscar, assorto nei suoi pensieri esaltanti: andare a casa a dormire. Gli porse un boccale di birra alla spina. La giovanotta desiderava incontrarlo in privato, ma aveva atteso sino ad allora per non insospettirlo. Riuscì a strappare ad Oscar un invito a cena per il sabato successivo. Lui detestava uscire la sera con le sconosciute, preferiva di gran lunga sbattersi sul divano, nella sua splendida ed ovattata depressione a leggere Topolino o raramente un giallo di Rex Stout, abbandonato invariabilmente mezz’ora dopo al gabinetto. Rex Stout diveniva in senso lato, un bene d’uso igienico. Invece House’s Pens e Day Boy! le adorava a tal punto d’aver abbandonato la casa paterna per affittarne una che avesse una grande stanza dove sistemare ben dieci annate complete delle riviste nonché altri oggetti di piacere acquistati per corrispondenza.
Giuliana era splendida quel sabato sera: vestito di seta blu con abbondanti spacchi laterali. Scarpette scollate di vernice nera, dotate di vertiginosi tacchi a spillo, calze velate con riga posteriore d’ordinanza.
L’intimità era così concepita: perizoma nero. Il viso? Raggiante, vivificato da tenui colori pastello attorno agli occhi, un tocco di fard e un bel rossetto lucido e provocante. Il tutto esaltato dai lunghi capelli neri, serici e lucenti. Dentro divampava il fuoco del purgatorio.
Pautasso era molto stanco, abbrutito da una notte tinta d’incubi paurosi e da una giornata perfettamente inutile. Non era sicuro di voler uscire. L’appuntamento lo lasciava del tutto indifferente, o almeno, questo si raccontava. Giuliana gli piaceva, ma lo possedeva anche un pessimo carattere: dare per avere. Lei gli avrebbe donato una cosa che sognava giorno e notte, ma avrebbe domandato o preteso un contraccambio. Il motto “Se io do una cosa a te, tu poi dai una cosa a me…” non è sempre applicabile alle donne. Il baratto così concepito potrebbe essere considerato non tanto un bilancio in pareggio, quanto un affronto da lavare con le lacrime e poi col sangue. O viceversa. Aveva paura, ma la sua libidine sapeva contrastare l’angoscia. La consapevolezza di non poter reggere un infimo contraddittorio lo terrorizzava; sarebbe passato dalla parte del torto. Pregustava la sua impotenza: “Oscar, sei un egoista! Perché non mi telefoni più! Credevo che fossi diverso dagli altri. Volevi solo farti una scopata!”
Dio, Dio, avrebbe dovuto cambiare anche bar! Ed era il meno; sarebbe finita con la sostituzione del numero di telefono e della serratura di casa, sì, perché mica era possibile farsene solo una, prima o poi, cedendo alle tentazioni serali, gliela avrebbe data la chiave di casa! Dio, Dio. Radendosi si tagliò cinque o sei volte, gli caddero gli occhiali e una lente andò in mille pezzi. Quando si dice… le frasi fatte! Eppure erano proprio mille. Uscì alle venti e venticinque, con un ritardo di soli cinque minuti.
Felicità! Cenando, Giuliana non volle sapere quanto valeva in termini monetari, non accennò al lavoro, non chiese come Oscar passasse il tempo libero e le vacanze, non volle sapere quanto guadagnava, ne se avesse rendite o proprietà. Non s’interessò minimamente al suo passato, all’adolescenza, all’infanzia, ai complessi edipici. Parve accendersi per i maltagliati alla panna, il filetto al pepe verde e il Barolo. Espresse parere favorevole nei confronti del cinema americano dei bei tempi andati, esaltando Frank Capra e John Ford. Pautasso l’ascoltava stupito. Lo stupore si trasformò in incredulità quando Giuliana rifiutò di farsi pagare la cena, pregandolo di accettarla per quello che era: una donna che ci tiene alla propria dignità. Il nostro pallido eroe, annaspando compiaciuto, lasciò che fosse lei a tenere la porta aperta per farlo uscire dal locale.
Giuliana lo caricò sulla sua auto sportiva decappottabile, infilò un disco nel lettore che subito riprodusse un frenetico ritmo psico drum. Accese il motore, partì, accelerò facendo fischiare le ruote. Nel tentativo di spiegarsi cosa stesse accadendo, disse a se stesso che c’era sotto qualcosa. Lo aveva anticipato, era lei che recitava la parte della giovane emancipata che vuole solo passare una bella serata, terminandola a letto senza problemi. Tutto ciò gli facilitava tremendamente le cose, si era messa in trappola: non le avrebbe permesso di tirarsi indietro all’ultimo momento. Sarebbe stato troppo tardi per rifiutarsi di dare. Lei avrebbe dato, ah se avrebbe dato, e lui avrebbe preso, ah se avrebbe preso. Pautasso desiderava ormai da tempo immemorabile. Già sudava al solo pensiero di un corpo nudo, ma nulla è più fugace del piacere fisico, come nulla è più caduco della torta di compleanno, che prima splende in tutta la sua panna con i canditi e le candeline e poi scompare sino a diventare un cumulo di briciole, di granelle, di zuccherini multicolori, di sbafi di crema immangiabile, sparsa sul piatto di portata. Essa muta come i fiori di ciliegio all’apparire del caldo afoso. E dopo l’abbuffata gli effluvi di rum aleggiano nell’aria e prendono lo stomaco.
Faceva tutto lei. Che disgusto. Era troppo. La mente di Oscar Pautasso si riempì di scandalo. Giuliana cantava tenendo saldamente il volante, lui taceva. Non riusciva ad immaginare dove lo stesse portando quel mostro di femmina e non osava chiederglielo.
“Ti piace correre?!”, domandò Giuliana.
“Non mi succede spesso”, rispose Pautasso, tenendo d’occhio il contachilometri, che diceva centotrenta.
“Hai paura, ti caghi sotto, dillo?! Non ti preoccupare, non ho mai cuccato un incidente, e sono anni che guido, macchine più complicate di queste!” Era vero.
“Dai, rilassati, dove andiamo?”
Oscar Pautasso, sempre più pallido, propose: gita al lago di Candia, gelato, cine e bowling.
La donna rise: “Sei matto, sei proprio fuori di testa! Perché vuoi perdere tempo? Ti porto a casa mia, okay?!”
“Come dici? Non vorrei disturbare.” Singhiozzò Oscar.
“Timidone, non meniamocela tanto. Ho un progetto speciale che ti riguarda molto da vicino.”
Il dottor Oscar Pautasso, laureato in economia e commercio ma che faceva il contabile e non contava niente, non riusciva a fare i conti con una realtà sconosciuta, che mal rispondeva alle leggi economiche del dare e dell’avere.
C’era l’offerta anche senza domanda: “Non afferro, vorresti essere più chiara?”, si limitò a chiedere. Eppure al Bar Dino & Dina e al Circolo della Scopa, lo consideravano una personalità carismatica, di gran rilievo oratorio.
“Sei così carino tu, hai un’aria sminchiata… sta sera non ti lascio se non dopo averti sconvolto, lo giuro sui Rolling Stones!” Rise, terribile.
Il tachimetro segnava centottanta, parecchio, anche per una tangenziale. Lo stava sconvolgendo eccome, il cuore gli schiattava in gola per la paura. Lui, che aveva tentato, otto volte, di superare l’esame di guida senza successo, si vedeva schiavo d’una donna che probabilmente aveva studiato all’autodromo di Monza. Considerava questa situazione intollerabile e vergognosa, ma lei continuava ad accarezzargli i capelli, ripetendo: “Dai, rilassati, fra meno di dieci minuti il tuo imbarazzo finirà in paradiso. Ti sconvolgerò, vedrai!”
Iniziò a sconvolgerlo venti minuti dopo, senza darci il tempo di guardare com’è arredata la casa. Il Pautasso non se la sentiva di sbandare pericolosamente. Mentre le toccava i seni, iniziò nella sua testa una cantilena dell’impossibilità: “Niente nere, niente slave, niente amiche occasionali delle amiche abituali, e neanche amiche abituali delle amiche occasionali, e soprattutto mai con le sconosciute! Perché, io, sono un uomo rude, posso benissimo restare senza amore per mesi, anni, secoli.”
Oscar si era lasciato andare, permettendo a Giuliana di scivolare giù per riempirsi la bocca della sua brama. Il corpo a corpo diventò stretto, quando il dottor Pautasso percepì qualcosa d’eccentrico sbucare dalle mutande di lei, come un clown a molla che scatta su da una scatola a sorpresa. Quella sensuale femminilità nascondeva un segreto.
L’esitazione durò un attimo, ma la ragazzona non si scoraggiò, accettò quegli eterni secondi di dubbio, poi liberò il brioso saltimbanco: “Te l’ho detto che ti avrei sconvolto”, disse tranquilla.
Oscar era pronto alla fuga, ma Giuliana, più rapida del pensiero, gli imprigionò mani e caviglie con delle manette, lasciandolo bocconi a dimenarsi e ad ansimare. Giuliana rivelando una forza erculea riuscì a tenerlo fermo per poi insinuarsi con severità fra le sue natiche. La tenerezza divenne una furia belluina che lo colmò. Il classico colpo di fulmine.
“Ti piace?” gli sussurrava in un orecchio, con la voce più sensuale e femminile del mondo.
Oscar si sentiva ingannato dal marxismo e soggiogato da un peso tenace sulla schiena e sulle spalle. Si sentì come una bottiglia sturata, quando lei ritrasse il clown…
“Tesoro, tutto okay?”, disse Giuliana.
“Non chiamarmi tesoro!”
“E perché? Suona così bene… sei carino, ma continui ad avere un’aria sminchiata. Ti preparo un ovetto sbattuto con il marsala.”
“L’uovo sbattuto no, piuttosto toglimi le manette!” urlò.
Giuliana, in ginocchio sul letto, lo guardava inespressiva. Il suo pene non voleva saperne di afflosciarsi. Oscar piagnucolava, digrignando i denti come un bambino spaventato. Tentò di trovare una via d’accesso alla sua disperazione: “Senti, lo so che non ci crederai, ma io sono una donna extraterrestre.”
“Tu sei pazzo, pazzo e frocio!”
“Amore mio, l’inquinamento e la schizofrenia vi stanno distruggendo, noi stiamo cercando di salvare l’umanità dalla distruzione iniettando in voi una genetica incorruttibile. Non più il DNA ma il GNA, l’acido genionucleico che può essere trasmesso solo durante l’accoppiamento e per via rettale.”
“Come una supposta?!” urlò il Pautasso, alzandosi dal letto per sistemarsi il collo di Giuliana fra le mani. Con la rabbia alla bocca e il cervello che gli colava dalle orecchie, Oscar torse più forte la parte terminale di quella spina dorsale.
Giuliana, nell’impossibilità di esprimere un parere, presa dall’obbligo di rantolare, pensò: “Proprio io che non ho mai voluto programmare il mio settore didattico cerebrale, dovevo capitare in questo stupido XXI secolo. Come faccio a farmi capire da sto contemporaneo delle mie sinapsi!?”
Con gesto meccanico aprì la bocca per eruttare un impercettibile fuoco azzurrino: la solita acidosi, causata dall’eccesso di ossigeno nel sangue, governato dall’ammoniaca. L'esalazione piombò sul volto del Pautasso, che perse conoscenza. Lei non si scompose, non godeva nel guardare quel viso leggermente ustionato. Rifuggiva da emozioni e sentimenti. Lo osservava e basta. Increspò le labbra in attesa del rinvenimento.
“Già” ponderò, “non possono esigere che capisca: io arrivo dal mio bel millennio evoluto ed esigo! Il fatto è che non sono preparata a insegnare... Oscar Pautasso, nella vita ordinaria, è un impiegato ordinario, che va ad un lavoro ordinario ogni mattina alle sette, per poter urlare parolacce indicibili contro quel porco lì e quel porco là!!”
“E’ soverchiamente lento di cervello”, disse il professor Luxus Urlaub, concretandosi nella stanza. Seppure ancora vago, ma in tutta la sua imponenza elettrica, proseguì: “Darei ordine a tale concetto, affermando che questo essere è insopportabile?”
Giuliana sapeva che Luxus sarebbe arrivato per dirigere l’operazione ed attivare la fecondazione. Però era in ritardo: negli ultimi secoli aveva sempre problemi di messa punto dei sistemi di trasporto dimensionali ma, cosa ancor più grave, non riusciva a integrare perfettamente le federazioni di coscienze nei condomini fisici. Così portò a termine la modificazione vibrazionale del suo eterico e addizionò la consapevolezza al livello fisico senza materializzare un nuovo corpo. Si ritrovò all'interno di Giuliana, una delle abitazioni più confortevoli della terra. Le due percezioni si riconobbero, ma non si fusero. Decisero di restare indipendenti, conservando consapevolezza l’una dell’altra.
Era un’impresa difficile salvare e far evolvere tutti i terrestri che conservavano il codice genetico antico. “Faticoso e impegnativo”, comunicò mentalmente Luxus a Giuliana, che lo ospitava.
“Questa settimana devi sodomizzarne altri otto umani, tre maschi e cinque femmine.”
“Ma Oscar mi piace, vorrei fidanzarmi con lui”, rispose.
“Lo sai qual è il tuo compito?!”
”L’inseminazione.”
“Appunto, mi stupisco che patologie da primitivi, come l’amore e l’individualità possano ancora toccarti”, concluse Luxus.
Giuliana ritornò in sè: “In fondo è buono, mi porta in tournée senza farmi leggere il calendario. Se sapessi dove devo andare, sarebbe molto più noioso.”
Quella rossa sbalorditiva che passeggiava in Via Della Spiga leccando un gelato alla fragola, era sicuramente lesbica. Il sole del tramonto, accarezzava il suo viso lentigginoso, e sottili palpiti di vento dolciastro ne penetravano gli intimi accessi, facendosi largo sotto la gonna di seta a fiori. Giuliana valutò quei seni minuti e fragili ma duri come coppe di cristallo, che attendevano labbra in deliquio, ansiose di inebriarsi… scese dallo spider per scambiare quattro chiacchiere alla moda, chissà se una diversa terrestre avrebbe accettato di farsi sodomizzare dalla prima venuta? Decise di farla sua.