POESIA
Saremo lontani
E’ tardi, lontano da te, con te che mi guardi dal tempo presente lontana, seduta su un muro passato, nascente dal rosa tramonto d’un giorno che è stato. Amore, t’invoco, t’invoco, raggiungere non posso il tuo viso per baciarlo con frasi di miele: è un ritaglio di spazio, di tempo, è una burla la foto sul muro, che racchiude passato e futuro. Quante foto io appesi al futuro, troppe immagini nell’anima stanca, son frantumi dormienti di ghiaccio, rosse perle di vetro all’addiaccio. Piove sangue ai confini del mondo, dove tutto ti sfugge e ti manca: qui il pensiero più bello e lontano, già diventa un sorriso che sbianca. Però tu tornerai, adorata, sarà festa, passò la tempesta, perché ancora faremo, ridendo, le faccende che sono la vita, e per sempre ameremo l’amore, tu il mio sole ed io il tuo sole, nel cammino carezze e candore. Ma scavando castelli di dopo, onanistico, il vuoto è più vuoto. Su, ridatemi tutta la strada, che io possa vederla e provarla, nell’istante ove il senno mi manca, la mia gente ho diritto d’amarla! Ah, l’assenza mi sbanca il cervello, mi riduce in leggero vascello, ché le ore passate e presenti, son monete d’un solo tesoro: guarda! scorre e m’avvolge in un vello, non è lana ma freddo metallo. L’ha tessuto Selene, silente, risplendente su pezzi di niente: una luce tagliente dall’alto, una fantasma d’argento e basalto sghignazzante si libra in un salto, di catene glancore sfottente. Io non sono né spettro né luna, innocente pregai la Fortuna. E’ il tormento del male assoluto, Arimanne e la siepe sorella, che Leopardi trascese nel nulla? O è il dolor di Carlotta che danza, nel salotto di nonna Speranza? Che sorriso mio padre sorrise, quando scesi quaggiù da una stella? E’ il passare del tempo che scorre, e la sosta del tempo che è fermo? E’ la gioia di Rita piccina, in quel tiepido giorno di maggio, quando mamma e zietta, per mano, la portaron a giocar sulla spiaggia? Quale amore provò il mio nonnino, quando ancor con la guerra nel cuore ma ai capelli un corvino splendore, gongolò al mio primo bacino? Poi riprese il suo gioco di carte, e una scala di fiori intrecciò? Già il Cinquanta febbrile rombava, di lavoro, speranze e corriere, che all’asfalto lasciavan canzoni, lunghe scie di mille illusioni, che quel babbo scontroso e civile, conservava nel petto gentile. E’ più vile del vile più vile, chi non sa custodire l’amore! Da Gozzano a quegli anni cinquanta, dolce angelo biondo, che manca, mi commuovo al ricordo che pranza, nella sala di Gesù Bambino. Son le minime cose, le luci, il sapore festivo, le voci, che non tornano, a fare il mio male. Perché sibili soffio in un lampo, inghiottito per sempre dal niente, tale al mare sdegnoso e profondo, che mi perde e non oso guardare? Sì, ti prego, mia parte di vita, torna, torna, no, no, non tardare! Or conosco le foto che ho appese, non soltanto le tue e le mie, ma di tutte le bimbe e i bambini dalle maglie del tempo pescati. Sono dolci e tremende follie, è un dolersi di maionese, sotto i volti di tutte le età, che già cantan a Madama Doré e di Pepina non bevon caffè. Quei fanciulli che stringo nel cuore, piangon forte, mia patria d’amore, troppe volte io vidi partire, torna adesso, e più non andare. |