POESIA
L’Harem di Nicamo
Nell’harem del grande sultano, attendo fremente nel candido letto, la piccola dama, promessa mia amante, e or penso i suoi piedi minuti, l’argentino cantar dei monili, i vertici duri dei seni, velati da veli incantati. Quel corpo, nervoso sovrano, fuscello splendente, lontano, che par consumarsi nell’estro, rinasce da sempre come una mare in tempesta, che mai s’impigrisce né requie t’implora. Ei forse, suggendo dai corpi la linfa vitale, diventa sì forte ad ogni giaciglio vissuto, che nulla e nessuno potrebbe impedirgli d’uccider l’amante nel gioco d’amore, d’uccider l’amato nel gioco del cuore. Nell’harem del grande sultano, io, invano, attendo fremente, levitando sul candido letto, nel molle mio Averno perduto, inghiottito, la piccola donna, promessa mia amante. Lei ora verrà per godermi, per stregarmi con arti fatali, mentre il fumo muschiato di Saba già possiede le membra brucianti e tortura la pelle di lava. Ma la mente ansimante, non paga, va danzando infuriata e potente sul gran fiume infinito d’oriente, che il suo corso ha da Tebe al Levante, miscelando al marcir del papiro del Nilo, il sentor di gaiezza del loto di Kyoto. Oh visione, ridammi il suo nome! Oh follia, risveglia il suo viso! Sù, dissolvi dal bruno del viso di Nefta, alla fragile cipria del volto di Joko! La mia docile bambola stanca, la mia vergine mistica e bianca, pura gemma che il Tao mi diede, che selvaggio un dì il Tao si riprese. Oh mia Joko, crudezza del gioco, oh adorata, perché così poco?! Sì, perché me ne andai via per sempre, inseguendo un delirio guadente, trascinando un ricordo struggente, per raggiunger la spenta sorgente? Ecco, ora è venuta a straziarmi, bruna Nefta dagl’occhi marziali, trasudante d’unghenti infernali, concubina dall’anima spenta, incorono a mio trono l’assenza, d’oro e gemme mi puoi ricoprire, il tuo idolo devi adorare. Ma io non sento, non vedo, non parlo, solo un tarlo mi rode, è un frastuono! Se non sono, chi piange sul trono? |