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Apocalissi in Bassa Frequenza

RACCONTO NIPPONICO


Immagine
A Tokio non sono mai stato, ma da quella città ho ricevuto una cartolina proprio ieri. Penso al Giappone, mentre il silenzio cresce. E’ un’ossessione della mia infanzia, quando mi chiudevo in un armadietto piccolissimo, con uno xilofono balocco per suonare fantasiose melodie orientali. Improvvisavo con bacchette giocattolo, figurandomi un mondo lontano e impalpabile, di facce pallide e capelli neri.
La commozione mi assaliva traducendosi in lacrime e singhiozzi soffocati, che mi facevano vibrare di tristezza. Ignoro perché mi mancasse tanto la giovane orientale, che non conoscevo.
Non la delimitavo, eppure avvertivo la sua lontananza nel tempo e nello spazio. Lacrime per l’assenza, per l’impossibilità di riabbracciarla. Era un urlo di dolore che si fermava in gola, soffocandomi. Solo lo scoppio del pianto liberava il mio respiro da quel viso gentile con gli occhi neri a mandorla e i capelli lisci, forti e scuri.
Non avevamo il televisore e le riviste costavano troppo per un’economia familiare proletaria. Ora, mi chiedo, dove avevo scovato quell’ineffabile amica del cuore bambino, l’ineffabile ricordo fatto di tutto e di nulla? Suzie Wong, è per me un nome dolcissimo.

Il mondo di Suzie Wong è un noto film americano che si svolge a Hong Kong: quando lo vidi ne restai impressionato, al punto di rinchiudermi nel silenzio per tre giorni. Lei era cinese, non giapponese: adolescente, bellissima, povera, amata da un ricco pittore americano, più vecchio di lei. Era un amore impossibile, tragico, come quello di un bambino di cinque anni per la sua fanciulla perduta.

Il sette agosto del 1959, quando finalmente i nonni comprarono un apparecchio televisivo, vidi un documentario sulla seconda guerra mondiale. La bambagia atomica, il vento radioattivo dell’esplosione. Sui muri le ombre residue di persone svanite nel nulla. Le città devastate, rase al suolo. I superstiti. Migliaia di mostri, emersi dall’immane crogiuolo.

Quella notte sognai una sirena che lanciava al cielo degli antenati un appello disperato. Ero al comando di un piccolo aereo monomotore. Volavo alto, nell’azzurro, pronto a scendere in picchiata sullo specchio argentato dell’oceano. Avevo in testa un caschetto da aviatore di pelle dura, spessi occhiali e maschera ad ossigeno e al collo una sciarpa di seta bianca, profumata di cipria e loto. Pegno d’amore per lei e per l’Imperatore. Morimmo puri, come fiori di ciliegio caduti in primavera…

Un perfetto grido meccanico, lancinante, piomba in picchiata sul mare, poi luce accecante, tuffo nel nulla e risveglio, condotto da uno xilofono giocattolo che canta Hiroshima e la trionfante sconfitta dell’amore e dell’onore.

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