LA CARA BIMBOTTINA
La speranza l’aveva abbandonata, suo figlio era morto d’overdose. La droga glielo aveva portato via da tempo, ma adesso lo strappo era definitivo. L’angoscia si era trasformata in pacata tortura. Che cosa avrebbe potuto chiedere, ora, alla vita?! Qualcosa di ancor più tremendo. E la vita, dopo pochi mesi glielo aveva donato. Perché nel ’67 il suo primo marito l’aveva abbandonata senza una parola? Era fuggito dal paese per perdersi nella giungla di città, dove non conosceva nessuno. Lei aveva atteso una sua telefonata, una lettera, una cartolina, per settimane, mesi, anni. Niente, nemmeno un messaggio di speranza affidato ad un amico compiacente
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Eppure gli aveva dimostrato in mille modi la sua adorazione, completa e incondizionata. La sua totale dipendenza fisica e psicologica. Forse se n’era andato proprio per questo. Quel dubbio l’aveva tormentata all’inizio della forzata solitudine, ma poi la dura realtà l’aveva risucchiata nel vortice del non senso, del lavoro di collaboratrice domestica nelle case dei ricchi paesani. A venti anni di distanza, ora, soltanto ora poteva redigere un bilancio. Il resoconto, apparentemente insignificante, di un’esistenza sbagliata, senza coraggio. Non era in pareggio! Un fallimento. In fondo nulla di nuovo, nulla che non avesse già scavato un profondo solco d’impotenza nella pieghe del suo volto di cinquantenne stanca e sciupata. Nulla che non avesse già provato, percorso in lungo e in largo, odiato e temuto come…. quella droga maledetta, come la mutazione di un ragazzo affettuoso, divenuto di giorno in giorno violento, logoro, assassino. Con tutta la forza della disperazione e della solitudine, però, pregava. Pregava il Dio ignoto perché le concedesse il coraggio.
Gli ospedali, i letti immacolati, l’odore penetrante dei disinfettanti, le fleboclisi, le notti insonni dell’unica sorella, le infermiere, le lettighe, i vicini lamentosi, le corsie inquietanti e… la pietà. Quella no, la pietà non voleva viverla, quella compassione malconcia, dietro ad una maschera di conformismo sbagliato. Non avrebbe potuto reggere gli spasimi, la chemioterapia, una flash dopo l’altro, un risveglio dopo l’altro, un incubo dopo l’altro, e poi… il nulla. Come, dove, quando? Il fato l’aveva sospinta inesorabilmente all’annientamento. Inutile aspettare ancora, inutile sperare nel miracolo, inutile prendersi in giro. Sua sorella l’avrebbe perdonata? L’unico pensiero che la teneva ancora legata al mondo della forma era quello: l’avrebbe perdonata? Doveva. Non aveva diritto di porre fra lei e la pace una barriera di sofferenza da superare.
Ercole, quello che aveva sostituito suo marito, l’aveva voluta solo per acquisire, a condizioni vantaggiose, una schiava. Solo una schiava. Avesse almeno tentato di far di lei un’amante, una compagna di vita, una madre. Figurati. Il porco passava il tempo libero al bar con gli amici, giocava a carte, guardava le partite in televisione, si ubriacava, tornava a casa a notte fonda e iniziava a russare come un hangar pieno d’aerei con i motori accesi. Neppure la picchiava se non trovava la cena pronta. Lei non esisteva. Ecco tutto.
Il medico non aveva parlato di tumore maligno, ma era stato vago, cortese, troppo cortese… lei e sua sorella non ci capivano niente d’esami istologici e cartelle cliniche. Troppo cortese, niente esitazioni. E’ tempo di andare. Aveva fatto il proprio dovere, aveva amato tutte le persone che si devono amare in una vita di necessità. Forse non era amore ma solo paura di restare sola ad affondare nel mondo. Per quale motivo non aveva avuto l’ardire? Qualche anno prima avrebbe potuto fuggire il paese, lasciarsi alle spalle il passato per tentare… sempre meglio di quella piazzetta con la chiesa, due bar, il panettiere e il negozio d’alimentari… l’oblio. Ora è tardi, troppo tardi. Andrà a caccia come faceva il nonno. Una randellata e via!
L’arma era fredda, pesante, misteriosa, carica. Aprì un cassetto del comò in radica di noce, coperto da un ampio merletto. Sul coperchio della vecchia scatola di latta sorrideva il volto di un bimbo paffuto. Tolse il coperchio: fotografie, lettere, cartoline: “Mamma, papà… tenetemi vicina perché sto tremando. Sono sempre la vostra cara bimbottina? Per favore, datemi tanti baci e carezze. Vorrei avervi qui per un istante, una dolce ninna nanna mi basterebbe per… morire felice.”
E il colpo partì.
Gli ospedali, i letti immacolati, l’odore penetrante dei disinfettanti, le fleboclisi, le notti insonni dell’unica sorella, le infermiere, le lettighe, i vicini lamentosi, le corsie inquietanti e… la pietà. Quella no, la pietà non voleva viverla, quella compassione malconcia, dietro ad una maschera di conformismo sbagliato. Non avrebbe potuto reggere gli spasimi, la chemioterapia, una flash dopo l’altro, un risveglio dopo l’altro, un incubo dopo l’altro, e poi… il nulla. Come, dove, quando? Il fato l’aveva sospinta inesorabilmente all’annientamento. Inutile aspettare ancora, inutile sperare nel miracolo, inutile prendersi in giro. Sua sorella l’avrebbe perdonata? L’unico pensiero che la teneva ancora legata al mondo della forma era quello: l’avrebbe perdonata? Doveva. Non aveva diritto di porre fra lei e la pace una barriera di sofferenza da superare.
Ercole, quello che aveva sostituito suo marito, l’aveva voluta solo per acquisire, a condizioni vantaggiose, una schiava. Solo una schiava. Avesse almeno tentato di far di lei un’amante, una compagna di vita, una madre. Figurati. Il porco passava il tempo libero al bar con gli amici, giocava a carte, guardava le partite in televisione, si ubriacava, tornava a casa a notte fonda e iniziava a russare come un hangar pieno d’aerei con i motori accesi. Neppure la picchiava se non trovava la cena pronta. Lei non esisteva. Ecco tutto.
Il medico non aveva parlato di tumore maligno, ma era stato vago, cortese, troppo cortese… lei e sua sorella non ci capivano niente d’esami istologici e cartelle cliniche. Troppo cortese, niente esitazioni. E’ tempo di andare. Aveva fatto il proprio dovere, aveva amato tutte le persone che si devono amare in una vita di necessità. Forse non era amore ma solo paura di restare sola ad affondare nel mondo. Per quale motivo non aveva avuto l’ardire? Qualche anno prima avrebbe potuto fuggire il paese, lasciarsi alle spalle il passato per tentare… sempre meglio di quella piazzetta con la chiesa, due bar, il panettiere e il negozio d’alimentari… l’oblio. Ora è tardi, troppo tardi. Andrà a caccia come faceva il nonno. Una randellata e via!
L’arma era fredda, pesante, misteriosa, carica. Aprì un cassetto del comò in radica di noce, coperto da un ampio merletto. Sul coperchio della vecchia scatola di latta sorrideva il volto di un bimbo paffuto. Tolse il coperchio: fotografie, lettere, cartoline: “Mamma, papà… tenetemi vicina perché sto tremando. Sono sempre la vostra cara bimbottina? Per favore, datemi tanti baci e carezze. Vorrei avervi qui per un istante, una dolce ninna nanna mi basterebbe per… morire felice.”
E il colpo partì.