TORINO-MILANO SULLA STATALE
E’ una scelta come un’altra. Dopo milioni di chilometri macinati sull’autostrada A4, alle tredici di un qualunque giorno di metà novembre, decido di andare a Milano usando la statale. Il sole pallido fa la guardia, sorveglia il giorno, ma supplica già il cambio, l’aria è fredda. Non è una bella giornata, ma neppure brutta, diciamo che… non è una giornata.
A Settimo Torinese c’è già la foschia che imbavaglia il panorama di tardo autunno. Annuncia madama nebbia, sorella del silenzio e della morte. Non so quanto tempo ci vorrà per arrivare, è un percorso mai tentato. Solitamente bisogna fare in fretta, più in fretta, per arrivare a Milano. |
Da Viale Certosa a Piazzale Loreto ci vogliono tre quarti d’ora. Non oggi. Abbasso il finestrino. Mi metto tranquillo dietro ad un camion che fila a settanta l’ora, lasciandomi accarezzare la faccia dall’aria fredda e malandata. Come me. Mi aspettano a Monza, in televisione, verso le quattro ha detto il regista, ma chi se ne frega: tanto la mia meta l’ho raggiunta. Finalmente, un viaggio nella Pianura Padana, fra ricordi, rettilinei alberati, risaie, cascine, chiese, campanili, cappelle abbandonate, capannoni industriali, borghi e paesi che sembrano tutti uguali, e fiumi, fiumi. Potrei dare un titolo alla giornata! Dal Po’ all’Olona, se andassi fino a Varese, ma io vado a Monza. Passo il ponte dello Stura in Corso Giulio Cesare, poi incontrerò il Malone, l’Orco, la Dora e il Ticino ma prima i tanti rivi d'irrigazione, come i canali Farini, Depretis e Cavour, ammantati di sterpaglie, dove l’acqua verde petrolio scorre lenta. Mi sento un cacciatore al primo safari, nella sua terra natia. In lingua swaili safari significa viaggio e la mia è una caccia grossa: celebro l’atavica malinconia padana, celebro il tradimento di Elena che mi ha lasciato da pochi mesi.
La bruma disperata si fa forte dopo Chivasso, bivio per Verolengo. E’ la stessa strada che percorrevo con lei la domenica per andare a pranzo dai suoi genitori. Familiare, intima, un tempo felicità, ora strappo, urlo, vuoto, dolore. Ricordando ciò che non potrò più vivere, le lacrime mi appannano il mondo, ma sui tornanti prima di Saluggia è tutto sotto controllo, la macchina non sbanda neanche un po’. Sono felice. A trentacinque anni la mia vita è come questa pianura, un bicchiere d’acqua e anice, come canta alla sua Madame Butterfly Paolo Conte in una canzone ambientata tra Casteggio e Voghera. I rimpianti affiorano tra i vapori dei Martini Dry che mi tengono compagnia sin dalle prime ore del giorno, mentre attraverso Sant'Antonino e lancio un'occhiata rapida alla casa, la casa nella quale avremmo potuto passare insieme gli ultimi anni della nostra vita, forse, se lei mi avesse amato veramente.
Cerco di pensare ai baci, alle carezze, alle promesse, alle frasi d'amore, ma è tutto confuso, scollegato. Mi lancio ai cento all'ora sul rettilineo verso Livorno Ferraris, fregandomene del limite di velocità, spinto dalla rabbia e da mille flash che non riesco a collocare nel tempo. E’ talmente piena di mal bianco… questa pianura, questa isola… che il mio io potrebbe persistere in un’eternità d’immagini e sensazioni passate, senza volerne altre.
Vetustà. Vorrei ballare uno slow con la mia anima sulla pista di un dancing del 1950, soffiando il vento dei ricordi dentro un quartetto di fiati, oppure appisolarmi su un divano sfondato nell’atelier di Giacometti. Sogni etruschi. Sta sera potrei tranquillamente camminare sui Navigli guardando la Tour Eifell venirmi incontro di lontano, mentre spira un vento di fredda Bretagna e inizia a piovere. Visione sublime: ecco le risaie, terre d’acqua, specchi di cielo, gracidano le rane mentre gli aerei postali ad elica si specchiano vanitosi. Fagioli, zanzare e giochi di bocce. Un bianchetto all’osteria, incontro al sole del pomeriggio. Fantasma, vorrei levitare sui neri scambi ferroviari dello scalo di Vercelli, nella notte estiva, quando l’odore di Marte e Cerere si miscela a quello del Giove della pioggia. Terra, pietre e rovi abbarbicati alle massicciate.
Potrei sedere sul selciato di Campo San Polo. Venezia e tramonto, meditato sui muri sbrecciati, dove sognano i mattoni redenti, privi dell’intonaco, mentre le rondini garriscono tra i rosa e gli azzurri del Veronese. Così, un giorno, andando da Torino a Milano, immagino secoli di passioni e patimenti, laggiù, sui sentieri in terra battuta, fra prati, covoni, boschi, rogge e tronchi caduti, passeggiano mano nella mano, contadine e mulattieri, servette e gondolieri. Si perdono fra le calli. Stanchi, adagiati su una panchina delle Fondamenta Nuove, guardano San Lazzaro dove dorme il tempo padano: “… e il treno va, scomparirà, sulle sue ruote rotonde, dietro le nuvole bionde ormai… ah, Elena, Elena, da dam, da dam, da dam”.
La bruma disperata si fa forte dopo Chivasso, bivio per Verolengo. E’ la stessa strada che percorrevo con lei la domenica per andare a pranzo dai suoi genitori. Familiare, intima, un tempo felicità, ora strappo, urlo, vuoto, dolore. Ricordando ciò che non potrò più vivere, le lacrime mi appannano il mondo, ma sui tornanti prima di Saluggia è tutto sotto controllo, la macchina non sbanda neanche un po’. Sono felice. A trentacinque anni la mia vita è come questa pianura, un bicchiere d’acqua e anice, come canta alla sua Madame Butterfly Paolo Conte in una canzone ambientata tra Casteggio e Voghera. I rimpianti affiorano tra i vapori dei Martini Dry che mi tengono compagnia sin dalle prime ore del giorno, mentre attraverso Sant'Antonino e lancio un'occhiata rapida alla casa, la casa nella quale avremmo potuto passare insieme gli ultimi anni della nostra vita, forse, se lei mi avesse amato veramente.
Cerco di pensare ai baci, alle carezze, alle promesse, alle frasi d'amore, ma è tutto confuso, scollegato. Mi lancio ai cento all'ora sul rettilineo verso Livorno Ferraris, fregandomene del limite di velocità, spinto dalla rabbia e da mille flash che non riesco a collocare nel tempo. E’ talmente piena di mal bianco… questa pianura, questa isola… che il mio io potrebbe persistere in un’eternità d’immagini e sensazioni passate, senza volerne altre.
Vetustà. Vorrei ballare uno slow con la mia anima sulla pista di un dancing del 1950, soffiando il vento dei ricordi dentro un quartetto di fiati, oppure appisolarmi su un divano sfondato nell’atelier di Giacometti. Sogni etruschi. Sta sera potrei tranquillamente camminare sui Navigli guardando la Tour Eifell venirmi incontro di lontano, mentre spira un vento di fredda Bretagna e inizia a piovere. Visione sublime: ecco le risaie, terre d’acqua, specchi di cielo, gracidano le rane mentre gli aerei postali ad elica si specchiano vanitosi. Fagioli, zanzare e giochi di bocce. Un bianchetto all’osteria, incontro al sole del pomeriggio. Fantasma, vorrei levitare sui neri scambi ferroviari dello scalo di Vercelli, nella notte estiva, quando l’odore di Marte e Cerere si miscela a quello del Giove della pioggia. Terra, pietre e rovi abbarbicati alle massicciate.
Potrei sedere sul selciato di Campo San Polo. Venezia e tramonto, meditato sui muri sbrecciati, dove sognano i mattoni redenti, privi dell’intonaco, mentre le rondini garriscono tra i rosa e gli azzurri del Veronese. Così, un giorno, andando da Torino a Milano, immagino secoli di passioni e patimenti, laggiù, sui sentieri in terra battuta, fra prati, covoni, boschi, rogge e tronchi caduti, passeggiano mano nella mano, contadine e mulattieri, servette e gondolieri. Si perdono fra le calli. Stanchi, adagiati su una panchina delle Fondamenta Nuove, guardano San Lazzaro dove dorme il tempo padano: “… e il treno va, scomparirà, sulle sue ruote rotonde, dietro le nuvole bionde ormai… ah, Elena, Elena, da dam, da dam, da dam”.