ALLA FACCIA DELL'IMPERO
Arrivammo a Roma. Era l’estate del 1978: la prima volta della mia vita nella megalopoli! Carlo ci accolse a casa sua, con sincera amicizia. Pietro Brambilla, nipote d’Ugo Tognazzi, aiutò persino Gabriella a portare le valigie in casa. Era un ragazzo simpatico e un po’ nevrotico, che aveva al proprio attivo alcune parti in film minori ed era emerso sul grande schermo in “Piazza San Babila, ore 12”. Diventammo amici e spesso cenammo nelle trattorie dentro e fuori porta. Capii subito l’importanza di restare fuori casa più tempo possibile, passeggiando, pellegrinando da un caffé ad una mostra, da una bettola ad un parco pubblico, dall’Isola Tiberina a Fregene.
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Mi spiegarono che a Roma era facile incontrare in strada personaggi noti e che la gente non chiedeva loro l’autografo. Vidi persino Alberto Moravia seduto al cinema dietro di me. Quella sera proiettarono “Quinteet” di Robert Altman, lessi poi la sua recensione su un noto settimanale. In quei giorni presi persino un aperitivo in Via Vittorio Emanuele fianco a fianco di Adriana Asti, - lei non se n’accorse -.
Una notte incontrai Giancarlo Nanni che menava il cane a fare pipì in prossimità dei Fori. Entrai in una salsamenteria del Trionfale, mentre Ottavia Piccolo stava comperando del prosciutto e qualche panino. Roma era tutto un fiorire di volti noti e di volti ignoti, ma che potevano… servire. Assurdo degli assurdi, un pomeriggio incrociai Diego Novelli in Via dei Serpenti. Mi sono sempre chiesto che cosa ci facesse in ferie a Roma nell’Agosto del 1978 il sindaco di Torino… forse anche lui era lì perché nel capoluogo subalpino avanzava la recessione nel mondo dello spettacolo, infatti, poco tempo dopo si candidò al parlamento.
Gabriella ed io dovevamo produrre: frequentare gente, strappare appuntamenti, fare provini. Quel periodo fu l’era della chiacchiera muta, del dire e del non dire, nonché del sentito dire. Esiste una serie di termini per riepilogare il tenore delle conversazioni fra artisti a spasso per Campo dei Fiori, Pantheon, Trinità dei Monti, Piazza del Popolo o Viale Mazzini, a caccia di notizie, attenzioni, occasioni e contatti: voci, curiosità, indiscrezioni, maldicenze, scortesie, malignità, ciance, ambiguità, menzogne, calunnie, crudeltà, cattiverie, perfidie, infamie, offese. Come pure: simulata complicità, cortigianeria, slealtà, invidia, petulanza e invadenza. Ci accingemmo a cercare una scrittura con fiscalità e costanza subalpina, telefonando metodicamente per ottenere provini, tentando qualche imboscata in vari uffici. Si era molto regolari nel pretendere attenzione, chiamando e richiamando registi, attori e aiutanti vari, sino a quando ci ricevevano o ci mandavano a fare in culo. Ma la via della costanza e della cortesia era tracciata, anche se l’approccio burocratico non dava frutti. Conoscemmo alcuni funzionari RAI, dei quali non faccio i nomi, tanto il grande pubblico non sa chi sono.
Una mattina all’ingresso dei servizi giornalistici di Via Teulada conobbi Aché Nanà. Entrambi aspettavamo d’essere ricevuti da qualcuno. Quando ci presentammo fui sbalordito dallo scoprire chi era quella ragazzetta in maglietta e blue jeans. Stringevo la piccola mano di una soubrette sensuale e infuocata, assurta alle cronache mondane qualche anno prima. Aveva attirato le mie attenzioni in una foto del Borghese, dove danzava immodestamente svestita, in un night club, circondata da vip annoiati e ben poco scandalizzati. Ricordo d’averla trovata bellissima nei film I Nuovi Mostri. Roma costava troppo. Taxi, autobus, bar, trattorie, fotocopie e fotografie: a centinaia, lasciate negli archivi e sui tavoli dei casting. Non capivamo perché si dovesse lavorare così tanto per trovare lavoro.
Carlo, che aveva assimilato la tradizione manigolda della soffiata, cercò di farci intendere che occorreva una strategia speciale: parlare e non dire, fare e non fare, rivelare e sconfessare… semplice, no?! Era sufficiente entrare in un clan, compagnia, trio, poteva bastare anche un tavolo da poker o il Risiko, purché fosse la casa giusta. Era poi indispensabile saper offrire qualcosa d’appetibile per riceverne in cambio considerazione o spregio. Che fosse l’una o l’altro poco importava, in tal modo nasceva il personaggio, si creava un caso, si era qualcuno per qualcuno e se, in quel momento, quel qualcuno poteva darti niente, qualcun altro avrebbe potuto notarti e proporti un lavoro, barattandolo per del sesso con te o con la tua donna. Poteva proportelo anche per fare uno sgarbo al padrone di casa, a sua moglie, a sua figlia, alla cameriera. Se ti andava bene potevi arrivare al momento giusto per tappare un buco in un film o in uno spettacolo rifiutato da un altro, disponendo d’informatori tempestivi, sempre che fosse scaduto il tempo massimo per lottizzarlo, il buco, metterlo all’asta, offrirlo all’amante dell’amico dell’amico della moglie del direttore di scena. Mi coceva il fatto di non essere all’altezza della lotta, ma neppure accettavo il fatto di dover diventare un gran figlio di mignotta, e che il mio miglior amico, attore praticamente debuttante, avesse fatto un film televisivo con Pupi Avati. Ero certo che il fato mi avrebbe dato una mano per colmare il divario nella competizione. Fino a quando Carlo aveva calcato le scena con una piccola compagnia d’avanguardia come il Gran Serraglio di Torino, non me ne importava molto, anche se ne invidiavo l’iniziativa e la faccia di culo. Ma che un ragazzo della mia età ed estrazione sociale, per di più del mio quartiere, in ventiquattro mesi circa dalla fine del servizio militare fosse riuscito ad entrare nel vero mondo dello spettacolo, mi bruciava un casino. Nello stesso tempo l’affannosa ed estenuante ricerca d’ingaggio mi deprimeva. Sfidava ogni giorno il mio sentimento d’inadeguatezza, mi costringeva ad un dispendio d’energie inumano.
A Roma non tirammo fuori un ragno di provino dal buco, ma accadde un fatto strano. A pranzo, in giro per trattorie, s’andò a mangiare a “Il re della mezza porzione”, lo stesso ristorante in cui si svolgono alcune scene del film “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola. Incontrai Scola, direte voi. No. La Sandrelli, Gasmann, Satta Flores, Manfredi?! Devo deludervi, sul più bello di una paglia e fieno alla papalina entrò un uomo agitato, sventolando alcuni fogli: “Aò, damme ‘n frizzantino fresco…” Guardò gli astanti con occhi allucinati e proseguì “… c’è stà quarcuno che c’ha esperienza de cimena?! Che ce sarebbe da fa du’ pose pagate bbène, ner filme che se sta aggirà fòri.”
Carlo ed il suo amico Paolo, aiuto regista disoccupato, avevano già fiutato aria di ciack entrando nel locale, ma era sempre in agguato la storia del dire e del non dire, del fare e del non fare. Si erano intesi con un’occhiata, mentre l’ebete, cioè io, aveva notato il furgone, un capannello di gente, ragazze in minigonna e donne più mature che prendevano appunti fra cavi, spot e riflettori mezzi smontati, senza dar loro alcuna importanza.
Carlo entra in azione. Invita al tavolo il trasteverino e s’informa. Un film di un regista quasi esordiente, un certo Miti, due pose forse tre. Carlo inizia a domandare, svelando, modestamente, d’essere uno degli attori che pochi mesi prima aveva preso parte al film televisivo “Jazz Band” di Pupi Avati. Le sue quotazioni salgono alle stelle. Il capo comparsa esce dal locale per rientrare quasi subito con la segretaria di produzione. La poveretta crede di poter risolvere l’inattesa defezione di un figurante con un colpo di fortuna e inizia la trattativa. “E’ un film che incasserà molto, la protagonista è un’emergente che diventerà famosissima e porterà fortuna anche a te.
Carlo nicchia, deve difendere la propria immagine di giovane attore rampante. Allora pensava di poter fare una carriera fulminea, alla Lino Capolicchio, il Giovane Normale di Lizzani. L’offerta economica, inoltre, lascia a desiderare. Qualche battibecco, poi la trovataccia alla Carlo (che quando voleva approfondire riusciva a lanciare la pietra, nascondere le mano, accusare il vicino del lancio. E mentre tutti si voltavano dall’altra parte per guardare il colpevole, raccoglierla di nuovo). Mi guardò per un istante, guardò la donna e lanciò: “Piero, sei troppo timido, dì qualcosa, proponiti, anche tu fai l’attore”.
Mi sentii strumentalizzato e gratificato. Un vero situazionista, decisamente tempista. Due pose in un film di serie b non erano il massimo, ma tutto sommato iniziar dovevo. Accettai, domandando con chi avrei dovuto girare le scene. “Anna Oxa”, disse la donna. Quella giovane cantante che si truccava in modo assurdo?! Dietro alla maschera, in televisione, mi era sembrata carina, ma voci maligne mi sussurravano che la ragazzina era parente di Enver Oxa, presidente nonché capo supremo dell’Albania, e intima della famiglia Craxi. Erano solo voci inquietanti, da verificare, anche oggi non sono certo che corrispondessero al vero. Comunque… nella scena in cui dovevo abbracciarla e passeggiare per un breve tratto con lei, non riuscii ad essere propriamente naturale, sospettando di lavorare con una vera compagna.
Ero nervoso, domandai il copione ma la segretaria mi disse che per quella parte non erano state scritte battute. Dovevo improvvisare. Pure. Mi vestirono da hippy, non da hipster, ma da figlio dei fiori, con un sari di cotone leggero rosato e un foulard al collo. Fumai venti, ventitre sigarette, abilmente imitando la tranquillità, assistetti a vari ciack, poi venne il mio turno. Qualcuno disse: “Devi prendere Anna sotto braccio, tu sei l’amico del quartiere che conosce tutti e l’ha salvata da una brutta situazione. Saluta qua e là, il vicolo è pieno di gente, scesa per accogliervi, per festeggiare il vostro ritorno.” Non c’era nessuno. Anna sembrava ancora più impacciata e imbarazzata di me. La presi sotto braccio, camminammo per qualche metro. Aveva un vestito corto. Notai il suo bel viso, un po’ marcato, e le lunghe gambe muscolose, affusolate, coperte da stivali bianchi. Non ero emozionato per il fatto di passeggiare a braccetto della Oxa, non provavo nulla, solo il panico di non saper cosa dire. Non inventai nulla, se non dei ciao, come va, tutto okay, salutando con la manina e benedicendo l’immaginaria folla come un papa o un pappa che accetta i salamelecchi dei sudditi.
La produzione non parve apprezzare la mia interpretazione, così mi pagò una sola posa, attesi tutto il pomeriggio le novantamila lire e me ne andai a piedi in Via Cavour.
Qualche giorno dopo, mentre un forte temporale estivo inondava la terrazza che guardava su Via Urbana, mi sedetti sulla moquette, davanti alla finestra aperta. Le gocce di pioggia s’annientavano nelle pozze. L’angoscia mi serrava la gola e la mente vagava nel nulla, un nulla trapunto di spilli e fantasmi. Pensai a Torino, alla barriera di Milano, la patria lontana. Non mi sentivo pronto ad abbandonare la mia metropoli prussiana, nera e caliginosa, per barattarla con l’afosa e untuosa Urbe, soprattutto attorno alla stazione Termini, con tutte quelle rosticcerie.
Ragionavo, bevendo whisky a lunghi sorsi: il mio cielo non è popolato di stelle ma di bar… come dice il grande Fred, che continua in un altro pezzo… ci vediamo domani sera al fondo d’un bicchiere… troppi whisky mi separano da te… Quella è l’anima mundi, operaia e autodidatta, l’anima popolare delle periferie, dell’antica Torino. L’anima del genio perdente. La città che ha inventato tutto: industria, cinema, radio e televisione, la macchina per scrivere di Ravizza e la lampadina di Cruto. La città che ha inventato Napoli! Fu il grande Francesco Cirio, torinese d.o.c. il primo a mettere in scatola i famosi ortaggi. Il re di Porta Palazzo! Avrei voluto conoscerlo quel pioniere, che nell’orto del paradiso si sta rivoltando nella pummarola vedendo quello che è riuscito a fare Cragnotti della sua intuizione.
Essendo nato a Torino non mi aspettavo d’essere promosso se difendevo la mia torinesità. Ero cretino, mica imbecille! D’altra parte mi sentivo così over size che i panni dell’attore e l’intercalare ‘an vedi bèllo, cazzo, famo, ‘namo, stamo… mi sarebbero andati troppo stretti. Persino un grande cispadano, cremonese, quindi lombardo, quindi Ugo Tognazzi, alla fine dovette accettare in qualche occasione, di fingere l’accento romano. Ma perché?!
Ero pensato da quei pensieri e sognavo una notte stregata di birra e nebbia. Le voci dell’infanzia, Macario, Campanini, Artuffo, Balocco, Farassino e il nonno che mi parlava di stelle, dinosauri e Tre Moschettieri radiofonici, sul balcone di Corso Giulio Cesare, già Ponte Mosca. Mi trasformavo in cacciatore di ricordi, inneggiando a Nunzio Filogamo, Nella Colombo, Gipo Farassino, Fred Buscaglione e Riz Samaritano.
La mia più alta ambizione cinematografica era quella d’entrare nella sala fumosa di una terza visione, come l’Adua, il Sociale, il Palermo, il Nord, il Major per vedere un film di fantascienza, ma prima… l’avanspettacolo!
Anche se Roma mi aveva respinto, la mia raggiante felicità non poteva togliermela nessuno. Tornato a Torino andai alla pizzeria Cecchi di Via Nicola Fabrizi, per farmi un chilo di farinata fumante… alla faccia dell’impero e dello star system! Al primo boccone di quel nettare di ceci, salutai con un pensiero i fantasmi di Raf Vallone e Marcello Mastroianni che da giovani avevano abitato proprio in quel quartiere, a cento metri da casa mia.
Una notte incontrai Giancarlo Nanni che menava il cane a fare pipì in prossimità dei Fori. Entrai in una salsamenteria del Trionfale, mentre Ottavia Piccolo stava comperando del prosciutto e qualche panino. Roma era tutto un fiorire di volti noti e di volti ignoti, ma che potevano… servire. Assurdo degli assurdi, un pomeriggio incrociai Diego Novelli in Via dei Serpenti. Mi sono sempre chiesto che cosa ci facesse in ferie a Roma nell’Agosto del 1978 il sindaco di Torino… forse anche lui era lì perché nel capoluogo subalpino avanzava la recessione nel mondo dello spettacolo, infatti, poco tempo dopo si candidò al parlamento.
Gabriella ed io dovevamo produrre: frequentare gente, strappare appuntamenti, fare provini. Quel periodo fu l’era della chiacchiera muta, del dire e del non dire, nonché del sentito dire. Esiste una serie di termini per riepilogare il tenore delle conversazioni fra artisti a spasso per Campo dei Fiori, Pantheon, Trinità dei Monti, Piazza del Popolo o Viale Mazzini, a caccia di notizie, attenzioni, occasioni e contatti: voci, curiosità, indiscrezioni, maldicenze, scortesie, malignità, ciance, ambiguità, menzogne, calunnie, crudeltà, cattiverie, perfidie, infamie, offese. Come pure: simulata complicità, cortigianeria, slealtà, invidia, petulanza e invadenza. Ci accingemmo a cercare una scrittura con fiscalità e costanza subalpina, telefonando metodicamente per ottenere provini, tentando qualche imboscata in vari uffici. Si era molto regolari nel pretendere attenzione, chiamando e richiamando registi, attori e aiutanti vari, sino a quando ci ricevevano o ci mandavano a fare in culo. Ma la via della costanza e della cortesia era tracciata, anche se l’approccio burocratico non dava frutti. Conoscemmo alcuni funzionari RAI, dei quali non faccio i nomi, tanto il grande pubblico non sa chi sono.
Una mattina all’ingresso dei servizi giornalistici di Via Teulada conobbi Aché Nanà. Entrambi aspettavamo d’essere ricevuti da qualcuno. Quando ci presentammo fui sbalordito dallo scoprire chi era quella ragazzetta in maglietta e blue jeans. Stringevo la piccola mano di una soubrette sensuale e infuocata, assurta alle cronache mondane qualche anno prima. Aveva attirato le mie attenzioni in una foto del Borghese, dove danzava immodestamente svestita, in un night club, circondata da vip annoiati e ben poco scandalizzati. Ricordo d’averla trovata bellissima nei film I Nuovi Mostri. Roma costava troppo. Taxi, autobus, bar, trattorie, fotocopie e fotografie: a centinaia, lasciate negli archivi e sui tavoli dei casting. Non capivamo perché si dovesse lavorare così tanto per trovare lavoro.
Carlo, che aveva assimilato la tradizione manigolda della soffiata, cercò di farci intendere che occorreva una strategia speciale: parlare e non dire, fare e non fare, rivelare e sconfessare… semplice, no?! Era sufficiente entrare in un clan, compagnia, trio, poteva bastare anche un tavolo da poker o il Risiko, purché fosse la casa giusta. Era poi indispensabile saper offrire qualcosa d’appetibile per riceverne in cambio considerazione o spregio. Che fosse l’una o l’altro poco importava, in tal modo nasceva il personaggio, si creava un caso, si era qualcuno per qualcuno e se, in quel momento, quel qualcuno poteva darti niente, qualcun altro avrebbe potuto notarti e proporti un lavoro, barattandolo per del sesso con te o con la tua donna. Poteva proportelo anche per fare uno sgarbo al padrone di casa, a sua moglie, a sua figlia, alla cameriera. Se ti andava bene potevi arrivare al momento giusto per tappare un buco in un film o in uno spettacolo rifiutato da un altro, disponendo d’informatori tempestivi, sempre che fosse scaduto il tempo massimo per lottizzarlo, il buco, metterlo all’asta, offrirlo all’amante dell’amico dell’amico della moglie del direttore di scena. Mi coceva il fatto di non essere all’altezza della lotta, ma neppure accettavo il fatto di dover diventare un gran figlio di mignotta, e che il mio miglior amico, attore praticamente debuttante, avesse fatto un film televisivo con Pupi Avati. Ero certo che il fato mi avrebbe dato una mano per colmare il divario nella competizione. Fino a quando Carlo aveva calcato le scena con una piccola compagnia d’avanguardia come il Gran Serraglio di Torino, non me ne importava molto, anche se ne invidiavo l’iniziativa e la faccia di culo. Ma che un ragazzo della mia età ed estrazione sociale, per di più del mio quartiere, in ventiquattro mesi circa dalla fine del servizio militare fosse riuscito ad entrare nel vero mondo dello spettacolo, mi bruciava un casino. Nello stesso tempo l’affannosa ed estenuante ricerca d’ingaggio mi deprimeva. Sfidava ogni giorno il mio sentimento d’inadeguatezza, mi costringeva ad un dispendio d’energie inumano.
A Roma non tirammo fuori un ragno di provino dal buco, ma accadde un fatto strano. A pranzo, in giro per trattorie, s’andò a mangiare a “Il re della mezza porzione”, lo stesso ristorante in cui si svolgono alcune scene del film “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola. Incontrai Scola, direte voi. No. La Sandrelli, Gasmann, Satta Flores, Manfredi?! Devo deludervi, sul più bello di una paglia e fieno alla papalina entrò un uomo agitato, sventolando alcuni fogli: “Aò, damme ‘n frizzantino fresco…” Guardò gli astanti con occhi allucinati e proseguì “… c’è stà quarcuno che c’ha esperienza de cimena?! Che ce sarebbe da fa du’ pose pagate bbène, ner filme che se sta aggirà fòri.”
Carlo ed il suo amico Paolo, aiuto regista disoccupato, avevano già fiutato aria di ciack entrando nel locale, ma era sempre in agguato la storia del dire e del non dire, del fare e del non fare. Si erano intesi con un’occhiata, mentre l’ebete, cioè io, aveva notato il furgone, un capannello di gente, ragazze in minigonna e donne più mature che prendevano appunti fra cavi, spot e riflettori mezzi smontati, senza dar loro alcuna importanza.
Carlo entra in azione. Invita al tavolo il trasteverino e s’informa. Un film di un regista quasi esordiente, un certo Miti, due pose forse tre. Carlo inizia a domandare, svelando, modestamente, d’essere uno degli attori che pochi mesi prima aveva preso parte al film televisivo “Jazz Band” di Pupi Avati. Le sue quotazioni salgono alle stelle. Il capo comparsa esce dal locale per rientrare quasi subito con la segretaria di produzione. La poveretta crede di poter risolvere l’inattesa defezione di un figurante con un colpo di fortuna e inizia la trattativa. “E’ un film che incasserà molto, la protagonista è un’emergente che diventerà famosissima e porterà fortuna anche a te.
Carlo nicchia, deve difendere la propria immagine di giovane attore rampante. Allora pensava di poter fare una carriera fulminea, alla Lino Capolicchio, il Giovane Normale di Lizzani. L’offerta economica, inoltre, lascia a desiderare. Qualche battibecco, poi la trovataccia alla Carlo (che quando voleva approfondire riusciva a lanciare la pietra, nascondere le mano, accusare il vicino del lancio. E mentre tutti si voltavano dall’altra parte per guardare il colpevole, raccoglierla di nuovo). Mi guardò per un istante, guardò la donna e lanciò: “Piero, sei troppo timido, dì qualcosa, proponiti, anche tu fai l’attore”.
Mi sentii strumentalizzato e gratificato. Un vero situazionista, decisamente tempista. Due pose in un film di serie b non erano il massimo, ma tutto sommato iniziar dovevo. Accettai, domandando con chi avrei dovuto girare le scene. “Anna Oxa”, disse la donna. Quella giovane cantante che si truccava in modo assurdo?! Dietro alla maschera, in televisione, mi era sembrata carina, ma voci maligne mi sussurravano che la ragazzina era parente di Enver Oxa, presidente nonché capo supremo dell’Albania, e intima della famiglia Craxi. Erano solo voci inquietanti, da verificare, anche oggi non sono certo che corrispondessero al vero. Comunque… nella scena in cui dovevo abbracciarla e passeggiare per un breve tratto con lei, non riuscii ad essere propriamente naturale, sospettando di lavorare con una vera compagna.
Ero nervoso, domandai il copione ma la segretaria mi disse che per quella parte non erano state scritte battute. Dovevo improvvisare. Pure. Mi vestirono da hippy, non da hipster, ma da figlio dei fiori, con un sari di cotone leggero rosato e un foulard al collo. Fumai venti, ventitre sigarette, abilmente imitando la tranquillità, assistetti a vari ciack, poi venne il mio turno. Qualcuno disse: “Devi prendere Anna sotto braccio, tu sei l’amico del quartiere che conosce tutti e l’ha salvata da una brutta situazione. Saluta qua e là, il vicolo è pieno di gente, scesa per accogliervi, per festeggiare il vostro ritorno.” Non c’era nessuno. Anna sembrava ancora più impacciata e imbarazzata di me. La presi sotto braccio, camminammo per qualche metro. Aveva un vestito corto. Notai il suo bel viso, un po’ marcato, e le lunghe gambe muscolose, affusolate, coperte da stivali bianchi. Non ero emozionato per il fatto di passeggiare a braccetto della Oxa, non provavo nulla, solo il panico di non saper cosa dire. Non inventai nulla, se non dei ciao, come va, tutto okay, salutando con la manina e benedicendo l’immaginaria folla come un papa o un pappa che accetta i salamelecchi dei sudditi.
La produzione non parve apprezzare la mia interpretazione, così mi pagò una sola posa, attesi tutto il pomeriggio le novantamila lire e me ne andai a piedi in Via Cavour.
Qualche giorno dopo, mentre un forte temporale estivo inondava la terrazza che guardava su Via Urbana, mi sedetti sulla moquette, davanti alla finestra aperta. Le gocce di pioggia s’annientavano nelle pozze. L’angoscia mi serrava la gola e la mente vagava nel nulla, un nulla trapunto di spilli e fantasmi. Pensai a Torino, alla barriera di Milano, la patria lontana. Non mi sentivo pronto ad abbandonare la mia metropoli prussiana, nera e caliginosa, per barattarla con l’afosa e untuosa Urbe, soprattutto attorno alla stazione Termini, con tutte quelle rosticcerie.
Ragionavo, bevendo whisky a lunghi sorsi: il mio cielo non è popolato di stelle ma di bar… come dice il grande Fred, che continua in un altro pezzo… ci vediamo domani sera al fondo d’un bicchiere… troppi whisky mi separano da te… Quella è l’anima mundi, operaia e autodidatta, l’anima popolare delle periferie, dell’antica Torino. L’anima del genio perdente. La città che ha inventato tutto: industria, cinema, radio e televisione, la macchina per scrivere di Ravizza e la lampadina di Cruto. La città che ha inventato Napoli! Fu il grande Francesco Cirio, torinese d.o.c. il primo a mettere in scatola i famosi ortaggi. Il re di Porta Palazzo! Avrei voluto conoscerlo quel pioniere, che nell’orto del paradiso si sta rivoltando nella pummarola vedendo quello che è riuscito a fare Cragnotti della sua intuizione.
Essendo nato a Torino non mi aspettavo d’essere promosso se difendevo la mia torinesità. Ero cretino, mica imbecille! D’altra parte mi sentivo così over size che i panni dell’attore e l’intercalare ‘an vedi bèllo, cazzo, famo, ‘namo, stamo… mi sarebbero andati troppo stretti. Persino un grande cispadano, cremonese, quindi lombardo, quindi Ugo Tognazzi, alla fine dovette accettare in qualche occasione, di fingere l’accento romano. Ma perché?!
Ero pensato da quei pensieri e sognavo una notte stregata di birra e nebbia. Le voci dell’infanzia, Macario, Campanini, Artuffo, Balocco, Farassino e il nonno che mi parlava di stelle, dinosauri e Tre Moschettieri radiofonici, sul balcone di Corso Giulio Cesare, già Ponte Mosca. Mi trasformavo in cacciatore di ricordi, inneggiando a Nunzio Filogamo, Nella Colombo, Gipo Farassino, Fred Buscaglione e Riz Samaritano.
La mia più alta ambizione cinematografica era quella d’entrare nella sala fumosa di una terza visione, come l’Adua, il Sociale, il Palermo, il Nord, il Major per vedere un film di fantascienza, ma prima… l’avanspettacolo!
Anche se Roma mi aveva respinto, la mia raggiante felicità non poteva togliermela nessuno. Tornato a Torino andai alla pizzeria Cecchi di Via Nicola Fabrizi, per farmi un chilo di farinata fumante… alla faccia dell’impero e dello star system! Al primo boccone di quel nettare di ceci, salutai con un pensiero i fantasmi di Raf Vallone e Marcello Mastroianni che da giovani avevano abitato proprio in quel quartiere, a cento metri da casa mia.