RESPIGHI SPORTING CLUB
Guido adorava le figurine dei calciatori, ma non aveva mai dato i primi calci ad un pallone, non sapeva giocare perché da ragazzino era afflitto da inguaribile obesità con fastidiose eruzioni di timidezza cutanea. E questo lo avvicinava a Carlo, anche a lui i campetti di periferia non interessavano, perché da bambino lo avevano sempre rifiutato per il suo rachitismo, troppo esibito.
Una grande amicizia fra un bulimico e un mingherlino, fondata sull’esclusione. Il Respighi Sporting Club era composto da alcuni begli elementi. Sul brecciolino della piazza ci si sbucciava le ginocchia: le ferite sanguinanti e schiumose d’acqua ossigenata, sembravano miniature di pizze Margherita. |
Simili a quelle della Pizzeria Fezza di Via Cherubini, trecento metri più in là.
La formazione base era composta da: Marione Valdano, Ernesto Monticone, Salvatore ed Enrico Lamendola, (nella foto d'epoca), Angelino Mastrullo, Alberto Guglielmini, il Claudione, che aveva un banco al mercato col suo babbo ed era patito di modellismo, e Massimina. Una ragazza, sì, bel corpo proporzionato e sensuale, ma col doppio mento. Guidava una moto enorme e diceva molte parolacce.
In panchina qualche occasionale, come i cugini Bondioli, (Claudio e Marco), Felice e Vittorio. Roberto Raffaldi, Paolo Solina e Claudio Finocchiaro che suonavano la chitarra, ed erano di un altro club, ma ogni tanto giocavano anche loro con il Respighi.
E poi c'era il Beppe! Beppe, faccione antipatico e rude. Beppe, il ragazzo quattrocchi, spesse lenti e montatura nera antica: il migliore. Ventidue anni, terza media, iscritto al PCI, bar, bicicletta o Motom, fidanzato da tre anni, chitarra sulla panchina. Niente intellettualismi: puro realismo di barriera, strada tracciata. Cinema la domenica, Franco e Ciccio, niente discoteca, meglio la sala da ballo. Rude razza operaia, cresciuta fra la sezione e l’oratorio. Il vero proletario che avrebbe costruito una famiglia, comandandone direzione e futuro, senza tante storie. Mistica purezza cattolico-comunista: divino Berlinguer. Nazionali Esportazioni, pacchetto verde con l’antico vascello a vele spiegate, passeggiate serali da Piazza Respighi al campetto di Via Sandro Botticelli. Sì e no un chilometro, ma due, tre volte, parlando di donne, moto e vacanze a Rimini. Sciopero per il rinnovo del contratto e messa la domenica. Un vasco della carambola. Un eroe della semplicità. La consapevolezza politica del Beppe riguardava anche l’utilizzo della camicia e della cravatta. Egli, profeta del va’ fan culo borghese di merda, nel 1972 la camicia e la cravatta gliele avrebbe ficcate proprio nel culo, a quelle merde di quadri della FIAT e di figli di quadri della FIAT che frequentavano la Scuola d’Amministrazione Industriale. Sempre i soliti coglioni, che vedevi ogni sera rompere i coglioni, in Piazza San Carlo con quei coglioni di spider.
Si iniziò a scalciare nel 1965, quando Piazza Respighi era già perfettamente circolare, ma aveva solo sei diramazioni. Non era ancora sorto il cantiere tra Via Cherubini e Via Cimarosa, e neppure il prolungamento di quest’ultima verso via Mercadante. Davanti alla centrale dell’ENEL stava un vasto spiazzo di terra ed erba polverosa, detto campetto (prossimo alla baracca di un circolo ricreativo), che quando pioveva diventava una palude. Evento che lo rendeva regolamentare, in quanto provvisto del pozzangherone a centrocampo! Ma il campetto scomparve da un giorno all’altro. Il quartiere fu svegliato dalle ruspe che scavavano le fondamenta di nuovi edifici d’otto piani.
Beppe ci rimase malissimo, mentre Guido era impegnato a seguire di lontano una bella ragazzina che tutti i ragazzini volevano baciare: Adriana Grano. Bionda, viso triangolare, magro, occhi verdissimi, minuta, piccolina. Perfetta. La stessa ragazzina che fu immortalata dal fotografo de LA STAMPA attorno al 1966, quando in quel cantiere una gru distratta spiaccicò la testa di un operaio sull’asfalto, appiattendola come una frittata. Se ne parlò per mesi di quell’orribile incidente sul lavoro. Il cervello si sparpagliò tutto intorno, in particolare sulle enormi ruote. Nella foto, Adriana Grano è in primo piano, in compagnia della sua amica, Angela Pennella, e… ridono. A dodici anni si ride sempre per cose del genere.
Poco dopo, nel 1967, morì investito da un’auto il semidio del proletariato urbano: Gigi Meroni, magica ala destra del Torino. Scomparve tragicamente, senza poter festeggiare la Coppa Italia, che i granata avrebbero conquistato di lì a poco. Il bizzarro, eclettico, elegantissimo Gigi, aveva ventiquattro anni: debutto nel Como, transito nel Genoa, approdo al Toro, dove aveva disputato 103 gare, in tre campionati, fra il 1964 e il 1967, segnando 22 reti. Si erano fatto valere anche in Nazionale con 6 presenze e 2 reti.
Il lutto si diffuse a macchia d’olio come un’epidemia, tanto che anche i gobbi divennero tristi e solidali. Si pianse davvero.
Nonostante il trambusto, Piazza Respighi riprese a giocare e Beppe riprese ad urlare: “Coglione dove cazzo tiri. Adesso vai tu a prenderlo, stronzo!” Il pallone andava sempre ad incastrarsi sotto il pianale della FIAT 1100 del tabaccaio, perfettamente al centro. Prima si tentavano plurime richieste urlate ai passanti: “Palla! Palla!” Poi doveva provvedere il colpevole, sommerso di fischi, datti una mossa e ‘va fan culo.
Il compito era ingrato, poiché doveva dimostrare capacità superiori a quelle di uno speleologo. Dopo aver allungato una gamba per tirarlo via con un calcio, ci provava con le mani, per poi infilarsi a poco a poco sotto l’auto, riemergendo sporco come una frizione ingrassata: “Sto bastardo!” Tutti adottavano come soprannome quello di un campione del momento. Tra i più inflazionati: Netzer, Muller, Cruyff, Neeskens e Rivelino. Tra gli italiani andavano forte Anastasi, Bettega, Pulici, Boninsegna, con patetici accenni ai mitici Rivera, Sivori, Mazzola, Bulgarelli, Facchetti, Rosato e Ferrini.
Durante le partite si usava un linguaggio cerimonioso. Locuzioni tipo... Ah Chinaglia fatti una sega! lanciate ad un avversario, erano complimenti che ribadivano un’identità e un certo razzismo.
Si giocava a Torino, e i campioni della Lazio, come Chinaglia, o del Cagliari, come Riva e Domenghini, o peggio ancora del Napoli, come Altafini, non erano tollerati. Anche perché all'inizio degli anni '70 quelli del Vesuvio segnavano ben poche reti e figuravano quasi mai nella classifica finale marcatori. La gloria da attribuzione era riservata alle squadre del nord, in primis Juventus, Toro e Inter, seguite a breve distanza da Milan e Bologna. E il Modena era sempre in serie B o C, non ricordo. Che sfiga sto Modena!
Guido e Carlo si sedevano su una delle panchine che punteggiavano la circonferenza di Piazza Respighi, solitamente dove potevano rivolgere le spalle a Via Paisiello o a Via Cherubini, e li guardavano giocare senza alcuna tattica e senza tempo. Chi arrivava a dieci vinceva.
Correvano tutti sulla palla per fare gol, come tante furie afro brasiliane: Pelé, Nené, Cané…
I pali delle porte avevano dimensioni oscillanti, grazie al portiere che provvedeva a diminuirne la larghezza spostando una delle pietre o la giacca buttata a terra. La traversa non c’era e i tiri angolati, troppo alti, erano gol, soprattutto quando li realizzavano Marione e Silvestro, dotati di maggior prestanza fisica.
Il gaudemus igitur si raggiungeva mentre chi stava vincendo si lasciava andare a cori tipo: Figli di puttana se perdete c’inculiamo vostra sorella! con tanto di gesti basati sul palpeggiamento del cacciatore. Se il proprietario del pallone dissentiva e poneva fine al match dicendo… il pallone è mio! iniziavano gli spintoni e risuonavano melensaggini tipo… dai, non fare lo stronzo… io te la buco quella cazzo di palla! Ecco che il pallone era subito sminuito, diventava una palla, genere femminile per eccellenza. In effetti, si trattava di una sfera di gomma così leggera che quando dovevi tirare un rigore, spesso andava a meta il vento. Il pallone di cuoio era costoso, ma dava potere. Si usava in ricorrenze speciali, come il sabato pomeriggio e la fine della scuola. Per il Respighi Sporting Club, il rito del gonfiamento era importante, e aveva un sacerdote per ogni pellegrinaggio dal benzinaio di Via Paisiello, l’unico a possedere l’apposito spinotto sacramentale. Poi, il sacerdote di turno, lo alzava verso il cielo ostentandolo. Sfoggiava, ma doveva passare l’icona agli altri pellegrini, che avevano i loro diritti. Il ritorno era proprio una Via Crucis, dove ci si fermava in qualche strada poco trafficata, Paganini, Casella, Viriglio, davanti ai cancelli dei cortili ed alle saracinesche dei negozi chiusi, e vai a porta unica per testare il pallone contro il metallo, suscitando negli abitanti la classica furia da bombardamento.
Infine... c’era il problema del rigore. Decretarlo. Stabilire la distanza. Batterlo. Ci si regolava ad occhio e a pugni nell’occhio. Si era stabilito di contare dodici passi. Quando lo faceva chi doveva batterlo, ne numerava nove a bassa voce, per poi gridare: - dodici! La squadra che doveva subirlo, invece, li faceva contare a quello con le gambe più lunghe, nel tentativo di guadagnare terreno. Spesso Alberto Guglielmini rischiava crampi e distorsioni, perché non voleva scontentare i compagni di squadra. Era un bravo ragazzo emiliano, tutto scuola, casa e anarchia. Tifava per l'Inter, ma nel cuore aveva la Spal, la squadra di Ferrara che ottenne il quinto posto nel Campionato di Serie A 1959-60, per poi scomparire nei gironi infimi.
Durante i match del Respighi Sporting Club vigevano altre bizzarre regole di gioco. A tre calci d’angolo guadagnati si acquisiva il diritto ad un rigore. Il portiere, dopo avere accalappiato la palla, per non essere molestato nel rinvio, la faceva zompare tre volte e pronunciava la formula magica: “Uno, due, tre: fuori area!” Tutti si allontanavano dinanzi a tale minaccia. Il portiere, in caso di disparità numerica, poteva liberarsi, lasciare la porta scoperta e andare a fare goal. Bastava dichiararlo: Portiere volante! Chi lo desiderava poteva fratturare tibie e peroni, perché nessuno si lamentava. “Il calcio non è uno scherzo da signorine!” disse un giorno Marione a Carlo, che aveva insistito per provare.
Ed ecco l’inutile balletto della barriera sulle punizioni. Stabilita la distanza, invariabilmente il muro si apriva prima che il pallone fosse a metà strada. Solo rari incoscienti desideravano fermarlo con la faccia, il naso o col paese che non vide mai il sole.
La formazione base era composta da: Marione Valdano, Ernesto Monticone, Salvatore ed Enrico Lamendola, (nella foto d'epoca), Angelino Mastrullo, Alberto Guglielmini, il Claudione, che aveva un banco al mercato col suo babbo ed era patito di modellismo, e Massimina. Una ragazza, sì, bel corpo proporzionato e sensuale, ma col doppio mento. Guidava una moto enorme e diceva molte parolacce.
In panchina qualche occasionale, come i cugini Bondioli, (Claudio e Marco), Felice e Vittorio. Roberto Raffaldi, Paolo Solina e Claudio Finocchiaro che suonavano la chitarra, ed erano di un altro club, ma ogni tanto giocavano anche loro con il Respighi.
E poi c'era il Beppe! Beppe, faccione antipatico e rude. Beppe, il ragazzo quattrocchi, spesse lenti e montatura nera antica: il migliore. Ventidue anni, terza media, iscritto al PCI, bar, bicicletta o Motom, fidanzato da tre anni, chitarra sulla panchina. Niente intellettualismi: puro realismo di barriera, strada tracciata. Cinema la domenica, Franco e Ciccio, niente discoteca, meglio la sala da ballo. Rude razza operaia, cresciuta fra la sezione e l’oratorio. Il vero proletario che avrebbe costruito una famiglia, comandandone direzione e futuro, senza tante storie. Mistica purezza cattolico-comunista: divino Berlinguer. Nazionali Esportazioni, pacchetto verde con l’antico vascello a vele spiegate, passeggiate serali da Piazza Respighi al campetto di Via Sandro Botticelli. Sì e no un chilometro, ma due, tre volte, parlando di donne, moto e vacanze a Rimini. Sciopero per il rinnovo del contratto e messa la domenica. Un vasco della carambola. Un eroe della semplicità. La consapevolezza politica del Beppe riguardava anche l’utilizzo della camicia e della cravatta. Egli, profeta del va’ fan culo borghese di merda, nel 1972 la camicia e la cravatta gliele avrebbe ficcate proprio nel culo, a quelle merde di quadri della FIAT e di figli di quadri della FIAT che frequentavano la Scuola d’Amministrazione Industriale. Sempre i soliti coglioni, che vedevi ogni sera rompere i coglioni, in Piazza San Carlo con quei coglioni di spider.
Si iniziò a scalciare nel 1965, quando Piazza Respighi era già perfettamente circolare, ma aveva solo sei diramazioni. Non era ancora sorto il cantiere tra Via Cherubini e Via Cimarosa, e neppure il prolungamento di quest’ultima verso via Mercadante. Davanti alla centrale dell’ENEL stava un vasto spiazzo di terra ed erba polverosa, detto campetto (prossimo alla baracca di un circolo ricreativo), che quando pioveva diventava una palude. Evento che lo rendeva regolamentare, in quanto provvisto del pozzangherone a centrocampo! Ma il campetto scomparve da un giorno all’altro. Il quartiere fu svegliato dalle ruspe che scavavano le fondamenta di nuovi edifici d’otto piani.
Beppe ci rimase malissimo, mentre Guido era impegnato a seguire di lontano una bella ragazzina che tutti i ragazzini volevano baciare: Adriana Grano. Bionda, viso triangolare, magro, occhi verdissimi, minuta, piccolina. Perfetta. La stessa ragazzina che fu immortalata dal fotografo de LA STAMPA attorno al 1966, quando in quel cantiere una gru distratta spiaccicò la testa di un operaio sull’asfalto, appiattendola come una frittata. Se ne parlò per mesi di quell’orribile incidente sul lavoro. Il cervello si sparpagliò tutto intorno, in particolare sulle enormi ruote. Nella foto, Adriana Grano è in primo piano, in compagnia della sua amica, Angela Pennella, e… ridono. A dodici anni si ride sempre per cose del genere.
Poco dopo, nel 1967, morì investito da un’auto il semidio del proletariato urbano: Gigi Meroni, magica ala destra del Torino. Scomparve tragicamente, senza poter festeggiare la Coppa Italia, che i granata avrebbero conquistato di lì a poco. Il bizzarro, eclettico, elegantissimo Gigi, aveva ventiquattro anni: debutto nel Como, transito nel Genoa, approdo al Toro, dove aveva disputato 103 gare, in tre campionati, fra il 1964 e il 1967, segnando 22 reti. Si erano fatto valere anche in Nazionale con 6 presenze e 2 reti.
Il lutto si diffuse a macchia d’olio come un’epidemia, tanto che anche i gobbi divennero tristi e solidali. Si pianse davvero.
Nonostante il trambusto, Piazza Respighi riprese a giocare e Beppe riprese ad urlare: “Coglione dove cazzo tiri. Adesso vai tu a prenderlo, stronzo!” Il pallone andava sempre ad incastrarsi sotto il pianale della FIAT 1100 del tabaccaio, perfettamente al centro. Prima si tentavano plurime richieste urlate ai passanti: “Palla! Palla!” Poi doveva provvedere il colpevole, sommerso di fischi, datti una mossa e ‘va fan culo.
Il compito era ingrato, poiché doveva dimostrare capacità superiori a quelle di uno speleologo. Dopo aver allungato una gamba per tirarlo via con un calcio, ci provava con le mani, per poi infilarsi a poco a poco sotto l’auto, riemergendo sporco come una frizione ingrassata: “Sto bastardo!” Tutti adottavano come soprannome quello di un campione del momento. Tra i più inflazionati: Netzer, Muller, Cruyff, Neeskens e Rivelino. Tra gli italiani andavano forte Anastasi, Bettega, Pulici, Boninsegna, con patetici accenni ai mitici Rivera, Sivori, Mazzola, Bulgarelli, Facchetti, Rosato e Ferrini.
Durante le partite si usava un linguaggio cerimonioso. Locuzioni tipo... Ah Chinaglia fatti una sega! lanciate ad un avversario, erano complimenti che ribadivano un’identità e un certo razzismo.
Si giocava a Torino, e i campioni della Lazio, come Chinaglia, o del Cagliari, come Riva e Domenghini, o peggio ancora del Napoli, come Altafini, non erano tollerati. Anche perché all'inizio degli anni '70 quelli del Vesuvio segnavano ben poche reti e figuravano quasi mai nella classifica finale marcatori. La gloria da attribuzione era riservata alle squadre del nord, in primis Juventus, Toro e Inter, seguite a breve distanza da Milan e Bologna. E il Modena era sempre in serie B o C, non ricordo. Che sfiga sto Modena!
Guido e Carlo si sedevano su una delle panchine che punteggiavano la circonferenza di Piazza Respighi, solitamente dove potevano rivolgere le spalle a Via Paisiello o a Via Cherubini, e li guardavano giocare senza alcuna tattica e senza tempo. Chi arrivava a dieci vinceva.
Correvano tutti sulla palla per fare gol, come tante furie afro brasiliane: Pelé, Nené, Cané…
I pali delle porte avevano dimensioni oscillanti, grazie al portiere che provvedeva a diminuirne la larghezza spostando una delle pietre o la giacca buttata a terra. La traversa non c’era e i tiri angolati, troppo alti, erano gol, soprattutto quando li realizzavano Marione e Silvestro, dotati di maggior prestanza fisica.
Il gaudemus igitur si raggiungeva mentre chi stava vincendo si lasciava andare a cori tipo: Figli di puttana se perdete c’inculiamo vostra sorella! con tanto di gesti basati sul palpeggiamento del cacciatore. Se il proprietario del pallone dissentiva e poneva fine al match dicendo… il pallone è mio! iniziavano gli spintoni e risuonavano melensaggini tipo… dai, non fare lo stronzo… io te la buco quella cazzo di palla! Ecco che il pallone era subito sminuito, diventava una palla, genere femminile per eccellenza. In effetti, si trattava di una sfera di gomma così leggera che quando dovevi tirare un rigore, spesso andava a meta il vento. Il pallone di cuoio era costoso, ma dava potere. Si usava in ricorrenze speciali, come il sabato pomeriggio e la fine della scuola. Per il Respighi Sporting Club, il rito del gonfiamento era importante, e aveva un sacerdote per ogni pellegrinaggio dal benzinaio di Via Paisiello, l’unico a possedere l’apposito spinotto sacramentale. Poi, il sacerdote di turno, lo alzava verso il cielo ostentandolo. Sfoggiava, ma doveva passare l’icona agli altri pellegrini, che avevano i loro diritti. Il ritorno era proprio una Via Crucis, dove ci si fermava in qualche strada poco trafficata, Paganini, Casella, Viriglio, davanti ai cancelli dei cortili ed alle saracinesche dei negozi chiusi, e vai a porta unica per testare il pallone contro il metallo, suscitando negli abitanti la classica furia da bombardamento.
Infine... c’era il problema del rigore. Decretarlo. Stabilire la distanza. Batterlo. Ci si regolava ad occhio e a pugni nell’occhio. Si era stabilito di contare dodici passi. Quando lo faceva chi doveva batterlo, ne numerava nove a bassa voce, per poi gridare: - dodici! La squadra che doveva subirlo, invece, li faceva contare a quello con le gambe più lunghe, nel tentativo di guadagnare terreno. Spesso Alberto Guglielmini rischiava crampi e distorsioni, perché non voleva scontentare i compagni di squadra. Era un bravo ragazzo emiliano, tutto scuola, casa e anarchia. Tifava per l'Inter, ma nel cuore aveva la Spal, la squadra di Ferrara che ottenne il quinto posto nel Campionato di Serie A 1959-60, per poi scomparire nei gironi infimi.
Durante i match del Respighi Sporting Club vigevano altre bizzarre regole di gioco. A tre calci d’angolo guadagnati si acquisiva il diritto ad un rigore. Il portiere, dopo avere accalappiato la palla, per non essere molestato nel rinvio, la faceva zompare tre volte e pronunciava la formula magica: “Uno, due, tre: fuori area!” Tutti si allontanavano dinanzi a tale minaccia. Il portiere, in caso di disparità numerica, poteva liberarsi, lasciare la porta scoperta e andare a fare goal. Bastava dichiararlo: Portiere volante! Chi lo desiderava poteva fratturare tibie e peroni, perché nessuno si lamentava. “Il calcio non è uno scherzo da signorine!” disse un giorno Marione a Carlo, che aveva insistito per provare.
Ed ecco l’inutile balletto della barriera sulle punizioni. Stabilita la distanza, invariabilmente il muro si apriva prima che il pallone fosse a metà strada. Solo rari incoscienti desideravano fermarlo con la faccia, il naso o col paese che non vide mai il sole.