OCCHI BLU
Il mio sguardo, fisso sulla sedia vuota, dove aveva reclamato il primo bacio, ipnotizzandomi con quelle pupille azzurre, cristalline come il mare dei Caraibi. Mi sorprese, alla fine di un piatto di risotto con i carciofi. Non credevo che l’invitato a cena prevedesse un bacio. Mi sbagliavo; spesso mi sbaglio quando tratto con le donne.
Quello era il passato, ormai scendeva la sera di fine estate. Al tramonto fasci di luce giocavano fra i mobili e gli oggetti, proiettando geometrie e ombre lontane. Era un ampio spazio aperto fine ‘800, al terzo piano di Via Saluzzo nel quartiere San Salvario. |
Un muro divisorio era caduto, sposando cucina e soggiorno. Un mondo vasto, pieno d’occhi: due balconi, una finestra, infissi alti, coperti di vetri. La stanza, da un lato guardava sulla strada, dall’altro su una graziosa piazzetta. Sembrava il ponte di una nave levitante sul mare del panorama urbano. Mi sentivo il terribile Capitano del Nulla. Una tazza di caffé riscaldato e ancora occhi, i miei, coperti d’erbacce cresciute troppo in fretta sull’amore.
Quello era il passato, ormai scendeva la sera di fine estate. Al tramonto fasci di luce giocavano fra i mobili e gli oggetti, proiettando geometrie e ombre lontane. Era un ampio spazio aperto fine ‘800, al terzo piano di Via Saluzzo nel quartiere San Salvario. Un muro divisorio era caduto, sposando cucina e soggiorno. Un mondo vasto, pieno d’occhi: due balconi, una finestra, infissi alti, coperti di vetri. La stanza, da un lato guardava sulla strada, dall’altro su una graziosa piazzetta. Sembrava il ponte di una nave levitante sul mare del panorama urbano. Mi sentivo il terribile Capitano del Nulla. Una tazza di caffé riscaldato e ancora occhi, i miei, coperti d’erbacce cresciute troppo in fretta sull’amore.
All’inizio sembrava la vita nuova, celestiali speranze, campane lontane, fiori viola e bianchi, ma ora erano ricordi di seconda mano, svenduti alla fiera della necessità. Ero rimasto lì, solo, nel suo appartamentone, troppo grande per una donna sola, che provava a non esserlo, circondandosi d’amiche e fugaci amanti, ma sempre ci ricadeva. “Tu sei la mia famiglia”, mi sussurrava facendo l’amore, ma il suo attaccamento d’orfana era un pasticcio, un mellifluo composto di Love Story, I Pirati della Malesia ed Il Padrone delle Ferriere. Durava da due anni e mezzo: trenta mesi d’incomprensioni, passione, strappi, accuse, prove e separazioni, momentanee ma necessarie, sempre decise da lei in pochi minuti, sull’onda della rabbia che implodeva pazza nella sua mente, mentre il cuore taceva, accettando l’ennesima pugnalata.
Quella volta, dopo due mesi di vacanze estive in Spagna, Francia e Liguria, tornammo a Torino. Ero sempre e ancora disoccupato. La sua sopportazione finì di nuovo. Si può vivere a lungo con un quarantenne squattrinato, inconcludente, spaventato, arrogante, che non lotta con piglio deciso per la sopravvivenza, accettando un lavoro qualunque, pur di lavorare? Mi avvisò il giorno prima. Poi partì di nuovo, per la prima volta senza me.
Occhi blu mi rimproverava, affidandomi con premurose raccomandazioni le chiavi di casa e della macchina. Aveva fiducia. Se n’era andata alle Maldive, lasciandomi a meditare in cucina, come un giocattolo difettoso che non diverte più. Non c’era, e io pregavo il cielo sperando in un miracolo che m’avrebbe donato, per magia, il lavoro sperato, appena fosse tornata. Passavo ore a pulire la casa, a riordinare oggetti e suppellettili, ad aggiustare le cose rotte, a lucidare i mobili e le porte di legno delle tante camere, e a pulire gli occhi, gli occhi! I mille vetri delle cento finestre che facevano entrare ad ogni ora del giorno tonnellate di luce in ogni stanza. Tutto doveva essere in ordine per il suo ritorno. Non era con me, ma mi parlava, mi guardava dalla grande foto sul muro di quell’open space arredato con i mobili di famiglia, come un negozio di rigattiere. Metà cucina, metà salotto, muri alti, pavimento antico a mosaico, malridotto ma incerato come uno specchio. Anche in quella foto, dove lei era molto più giovane, molto più bionda, molto più bella, non era a Torino. Sedeva su un muretto di pietre, sul lungo mare di una qualche cittadina della Costa Azzurra, illuminata da un sole calante, rosso come l’amore in un cielo livido.
I suoi occhi azzurri riuscivano ad illuminare le notti più scure, nel suo sorriso c’era poesia, eppure qualcosa d’inquietante le impediva di accettarmi. Lei era isegnante di matematica, rigorosa, lavoratrice, lei sapeva e basta! Aveva ereditato quanto le bastava per non dover pensare al futuro, ma conservava in quello sguardo un fremere di stelle buie, inquiete, fredde. Non capivo Piovene e non capivo neanche lei. Non le rubavo niente, non dipendevo dal suo denaro, ero sempre pronto, disponibile, l’aiutavo in mille modi, facevamo splendidi viaggi insieme, eppure… non afferravo. Una nera magia la possedeva. La prima sera che eravamo usciti insieme, nella Renault 4 rossa, sotto casa mia, era stata scossa da un tremito quando l’avevo abbracciata per baciarla. S’era schermita, s’era nascosta, scivolando in quel impermeabilino beige fuori moda, mi aveva saluto con un sorrisetto beffardo, disincantato ma velato di speranza.
La sua anima nascondeva qualcosa: lei partiva sempre, era quello il suo segreto.
All’inizio sembrava la vita nuova, celestiali speranze, campane lontane, fiori viola e bianchi, ma ora erano ricordi di seconda mano, svenduti alla fiera della necessità. Ero rimasto lì, solo, nel suo appartamentone, troppo grande per una donna sola, che provava a non esserlo, circondandosi d’amiche e fugaci amanti, ma sempre ci ricadeva. “Tu sei la mia famiglia”, mi sussurrava facendo l’amore, ma il suo attaccamento d’orfana era un pasticcio, un mellifluo composto di Love Story, I Pirati della Malesia ed Il Padrone delle Ferriere. Durava da due anni e mezzo: trenta mesi d’incomprensioni, passione, strappi, accuse, prove e separazioni, momentanee ma necessarie, sempre decise da lei in pochi minuti, sull’onda della rabbia che implodeva pazza nella sua mente, mentre il cuore taceva, accettando l’ennesima pugnalata.
Quella volta, dopo due mesi di vacanze estive in Spagna, Francia e Liguria, tornammo a Torino. Ero sempre e ancora disoccupato. La sua sopportazione finì di nuovo. Si può vivere a lungo con un quarantenne squattrinato, inconcludente, spaventato, arrogante, che non lotta con piglio deciso per la sopravvivenza, accettando un lavoro qualunque, pur di lavorare? Mi avvisò il giorno prima. Poi partì di nuovo, per la prima volta senza me.
Occhi blu mi rimproverava, affidandomi con premurose raccomandazioni le chiavi di casa e della macchina. Aveva fiducia. Se n’era andata alle Maldive, lasciandomi a meditare in cucina, come un giocattolo difettoso che non diverte più. Non c’era, e io pregavo il cielo sperando in un miracolo che m’avrebbe donato, per magia, il lavoro sperato, appena fosse tornata. Passavo ore a pulire la casa, a riordinare oggetti e suppellettili, ad aggiustare le cose rotte, a lucidare i mobili e le porte di legno delle tante camere, e a pulire gli occhi, gli occhi! I mille vetri delle cento finestre che facevano entrare ad ogni ora del giorno tonnellate di luce in ogni stanza. Tutto doveva essere in ordine per il suo ritorno. Non era con me, ma mi parlava, mi guardava dalla grande foto sul muro di quell’open space arredato con i mobili di famiglia, come un negozio di rigattiere. Metà cucina, metà salotto, muri alti, pavimento antico a mosaico, malridotto ma incerato come uno specchio. Anche in quella foto, dove lei era molto più giovane, molto più bionda, molto più bella, non era a Torino. Sedeva su un muretto di pietre, sul lungo mare di una qualche cittadina della Costa Azzurra, illuminata da un sole calante, rosso come l’amore in un cielo livido.
I suoi occhi azzurri riuscivano ad illuminare le notti più scure, nel suo sorriso c’era poesia, eppure qualcosa d’inquietante le impediva di accettarmi. Lei era isegnante di matematica, rigorosa, lavoratrice, lei sapeva e basta! Aveva ereditato quanto le bastava per non dover pensare al futuro, ma conservava in quello sguardo un fremere di stelle buie, inquiete, fredde. Non capivo Piovene e non capivo neanche lei. Non le rubavo niente, non dipendevo dal suo denaro, ero sempre pronto, disponibile, l’aiutavo in mille modi, facevamo splendidi viaggi insieme, eppure… non afferravo. Una nera magia la possedeva. La prima sera che eravamo usciti insieme, nella Renault 4 rossa, sotto casa mia, era stata scossa da un tremito quando l’avevo abbracciata per baciarla. S’era schermita, s’era nascosta, scivolando in quel impermeabilino beige fuori moda, mi aveva saluto con un sorrisetto beffardo, disincantato ma velato di speranza.
La sua anima nascondeva qualcosa: lei partiva sempre, era quello il suo segreto.