CROAZIA
Croazia! Viaggio deciso a due giorni da ferragosto. Torino-Trieste in una sola tirata, col piede di Gigi incatenato all’acceleratore della sua Golf rosso fuoco.
Una vacanza improvvisata per uomini soli, che si lasciano alle spalle storie sospese, interrotte, forse risolte, forse da riaprire. All’alba le brume della Slovenia ci avvolgono; dall’autoradio un coro di voci femminili recita il rosario e canta litanie. Pace, silenzio, la fine del mondo, la fine di due amori. Non sappiamo dove stiamo andando, nessuna prenotazione in albergo. Il mio amico è certo di trovarlo un posto, ha il numero di telefono di un agente di viaggi a Fiume, glielo ha dato un collega, in ufficio. Ci pensa lui. Speriamo. |
Al massimo girovaghiamo per un po’ scendendo verso la Bosnia. Si troverà pure un hotel, una locanda libera. Una casa di pescatori, suggerisce Gigi, con cinquemila lire mangiamo e dormiamo. Leggende dalmate.
Alle sette del mattino posteggiamo davanti alla stazione di Fiume, Rijeka per i locali. Una vecchia locomotiva a carbone promossa a monumento ci da il benvenuto. E’ imponente, tirata a lucido. Non dormiamo da ventiquattro ore. Beviamo un turpe caffé nel bar della ferrovia: il pavimento è coperto di cicche e cartacce, un’accoglienza principesca, ma è l’unico aperto nel raggio di sei chilometri. Odore di cesso. Gli occhi mi fanno male, stanno per uscire dalle orbite. La testa si allarga, si allunga, i nervi crepitano, il culo e le gambe devitalizzate.
Passano i primi autobus carichi di gente, sembrano pezzi da museo guasti, corrosi, inutilizzabili. Eppure circolano, perdendo pezzi di lamiera e croste di vernice ad ogni curva. Vomitano un fumo puzzolente, grigio azzurrastro. Telefona. Seconda me a quest’ora non trova nessuno. Infatti. Dormiamo un po’ in macchina? Eh già, mentre lui russa, la mia salma grida tentando di rilassarsi. Mi ronzano le api nel cervello. Alle otto e trenta ci danno, finalmente, un appuntamento. Un’indicazione precisissima, facciamo chilometri e sbagliamo strada sei o sette volte. Con sta toponomastica impronunciabile! Inutile chiedere ai passanti, non capiscono le lingue serie… italiano, francese, inglese, solo croato e tedesco.
Una zitella vestita da giardiniera, con in testa un cappellino di paglia e veletta da Elisabeth Taylor in un film degli anni ’50, ci sorride, mentre il suo botolo illogico, pezzato d’ogni colore, ci abbia contro la Marcia Turca di Mozart. Ci indica una direzione: - Slastizjarna, giù paese, prima pazza destro. E’ gentile a massacrare un po’ di italiano, ma noi non cerchiamo una pasticceria.
Uno studente con lo zainetto in bicicletta, la salvezza: ci dice dove andare. Su in collina, stradine e stradine… ci aspetta il retrobottega di un covo di contrabbandieri di sigarette, che ci lasciano col culo per terra, altro che hotel! Sarò razzista ma io degli jugoslavi non mi fido, tutti zingari o taglia gole di montagna: mercenari in incognito che vorrebbero studiare da tedeschi.
Dovrei ringraziare Gigi d’avermi salvato dall’afosa depressione ferragostana, invece io, io… ho la vocazione dell’ingrato brontolone, sempre pronto a criticare. Soprattutto se mi costringono a delle tirate troppo impegnative. La pigrizia è il mio massimo pregio. Giudico e arzigogolo, penso a mille emendamenti, come l’opposizione in parlamento quando è decisamente in minoranza. Poi tuono rimproveri e lamentele, in silenzio, ché non mi piace litigare.
Una casetta a due piani con la scaletta di metallo esterna, tipica costruzione da geometra. E questa sarebbe l’agenzia di viaggi?! Lo dicevo che c’era sotto qualcosa. Ci apre una ragazza bionda, alta, magretta ma con tutti gli attributi al posto giusto, un bel viso paesano. Finalmente qualcosa di carino, ma con la fede al dito troppo in evidenza. Entriamo. Mi sento confortato, siamo tornati a casa. L’ufficio sembra la cameretta di un ragazzo di terza media: divanetto di legno curvato chiaro, scrivania, mobiletti, libreria, tende veneziane alla finestra, tutto dozzinale, lindo, luminoso come in un condominio di periferia. Lavorano in incognito, niente ufficialità, niente vetrine, cataloghi, poster, segretarie. Solo un computer e il telefono. La ragazza ci offre un caffé all’italiana, casalingo, buono, pulito, mentre lui si occupa del nostro futuro turistico. Qualche chiamata. Non si capisce niente, scuote la testa. Siamo spacciati, sta notte dormiremo in macchina, me lo sento. Invece no, miracolo. Ci ha trovato una doppia sulla costa. Hotel quattro stelle per una notte, trattamento di prima colazione, poi ci deportano a Pag, un’isola, per il resto dei nostri giorni. Di vacanza. Congedo. Ripartiamo per… Novivinodolskij. Impronunciabile, impossibile da ricordare. Secondo me non esiste, costa troppo poco.
Lungo la strettissima statale, dove ad ogni sorpasso si rischiava uno scontro frontale, constatai che dopo la morte di Tito e il conflitto con la Serbia, la Dalmazia continuava a sembrare un paese socialista, anche se non lo era mai stato. L’hotel era molto più accogliente di quanto potessi immaginare, suddiviso in due ali, la prima moderna e razionale, la seconda squisitamente liberty, romantica, monumentale. Giardini, piscine, tutto trascuratissimo, antiquato, polveroso. Da qualche parte dovevano esserci delle terme, magari prosciugate… ma ero troppo stanco per augurarmi un’inattesa Baden Banden. Ci saremo fermati poche ore, il tempo per assaggiare la tradizionale ospitalità jugoslava, basata sulla più amichevole ostilità nei confronti di noi italiani che non siamo tornati dopo la seconda batosta mondiale con moneta pregiata, come i tedeschi. Comunque, pregiata o no che fosse, quella sera avevamo qualche moneta da spendere malissimo: spezzatino di Carrara o costolette di maiale bruciacchiate con cipolle e patate disfatte, alla festa danzate nel giardino dell’hotel.
Riposammo qualche ora, doccia, telegiornale in serbo croato e poi scendemmo affamati, avvolti da un'aura d’impalpabile euforia.
Il panorama era desolante, forse per l’ora tarda: le ventuno. Lo intuii subito che non ci avrebbero serviti, ma Gigi non è certo il tipo da arrendersi di fronte all’evidenza, alla negligenza o alla pigrizia di una cameriera croata. Mentre spiravano residui effluvi di carne alla brace e salsiccia, ormai estinti, ci sedemmo ad un tavolino di ferro smaltato, apparecchiato con una tovaglia di carta unta, coperta degli avanzi di chi ci aveva preceduto. Tra un lampione e l’altro penzolavano festoni e sfilate di lampadine colorate, come usava da noi nelle feste casalinghe del dopo guerra. Io mi sentivo in imbarazzo guardando la pista da ballo di cemento, semi vuota. Lui si agitò per richiamare l’attenzione. Prima fece un cenno ad una ragazza con il grembiule, che ci guardava di lontano, poi la chiamò, infine iniziò a bestemmiare in piemontese, senza successo. Si alzò, camminando pesante come una panzer che va ad occupare una nazione nemica. Raggiunse il gabbiotto della cucina, fra un gesto di stizza e un colpo di tosse avrebbe preteso la resa incondizionata o almeno… würstel e patate fritte.
Eravamo pesti, nel cielo si ammassavano nubi gonfie d’acqua. Tornò più incazzato che mai. Niente vettovaglie, il rancio è finito, beviamo almeno qualcosa! Io una birra, lui un quartino di vino bianco fresco, la sua droga estiva preferita. Inizia a piovere deciso, di stravento, se non ci sbrighiamo ci metteremo un mese a bere il vino e la birra… annacquati.
Peccato, c’era da spassarsela: l’idea di ballare un twist o una mazurca fra pescatori e pescatrici socialiste mi esaltava. Avevo scrutato fra la gente, cercando petti d'acciaio muscolosi, sudati, anelanti al sol dell'avvenire. Solo tardone tedesche, maglie con lustrini e pantaloni ricamati all’uncinetto, qualche bellona di Zagabria a fiorami e pantaloncini ben scosciati, dalle gambe torreggianti (troppo elevate per me) e… blue jeans, imbottiti di cowboy locali, tacchi alti e camicie ricamate. Banalismo alla Raffaella Carrà, che pur è di Cesena, quindi romagnola, quindi comunista! Che delusione ideologica la Jugoslavia!
L’Uomo Ragno aveva freddato l’Uomo di Marmo e io accusavo ormai un deciso attacco di nevrastenia da digiuno prolungato.
Alle sette del mattino posteggiamo davanti alla stazione di Fiume, Rijeka per i locali. Una vecchia locomotiva a carbone promossa a monumento ci da il benvenuto. E’ imponente, tirata a lucido. Non dormiamo da ventiquattro ore. Beviamo un turpe caffé nel bar della ferrovia: il pavimento è coperto di cicche e cartacce, un’accoglienza principesca, ma è l’unico aperto nel raggio di sei chilometri. Odore di cesso. Gli occhi mi fanno male, stanno per uscire dalle orbite. La testa si allarga, si allunga, i nervi crepitano, il culo e le gambe devitalizzate.
Passano i primi autobus carichi di gente, sembrano pezzi da museo guasti, corrosi, inutilizzabili. Eppure circolano, perdendo pezzi di lamiera e croste di vernice ad ogni curva. Vomitano un fumo puzzolente, grigio azzurrastro. Telefona. Seconda me a quest’ora non trova nessuno. Infatti. Dormiamo un po’ in macchina? Eh già, mentre lui russa, la mia salma grida tentando di rilassarsi. Mi ronzano le api nel cervello. Alle otto e trenta ci danno, finalmente, un appuntamento. Un’indicazione precisissima, facciamo chilometri e sbagliamo strada sei o sette volte. Con sta toponomastica impronunciabile! Inutile chiedere ai passanti, non capiscono le lingue serie… italiano, francese, inglese, solo croato e tedesco.
Una zitella vestita da giardiniera, con in testa un cappellino di paglia e veletta da Elisabeth Taylor in un film degli anni ’50, ci sorride, mentre il suo botolo illogico, pezzato d’ogni colore, ci abbia contro la Marcia Turca di Mozart. Ci indica una direzione: - Slastizjarna, giù paese, prima pazza destro. E’ gentile a massacrare un po’ di italiano, ma noi non cerchiamo una pasticceria.
Uno studente con lo zainetto in bicicletta, la salvezza: ci dice dove andare. Su in collina, stradine e stradine… ci aspetta il retrobottega di un covo di contrabbandieri di sigarette, che ci lasciano col culo per terra, altro che hotel! Sarò razzista ma io degli jugoslavi non mi fido, tutti zingari o taglia gole di montagna: mercenari in incognito che vorrebbero studiare da tedeschi.
Dovrei ringraziare Gigi d’avermi salvato dall’afosa depressione ferragostana, invece io, io… ho la vocazione dell’ingrato brontolone, sempre pronto a criticare. Soprattutto se mi costringono a delle tirate troppo impegnative. La pigrizia è il mio massimo pregio. Giudico e arzigogolo, penso a mille emendamenti, come l’opposizione in parlamento quando è decisamente in minoranza. Poi tuono rimproveri e lamentele, in silenzio, ché non mi piace litigare.
Una casetta a due piani con la scaletta di metallo esterna, tipica costruzione da geometra. E questa sarebbe l’agenzia di viaggi?! Lo dicevo che c’era sotto qualcosa. Ci apre una ragazza bionda, alta, magretta ma con tutti gli attributi al posto giusto, un bel viso paesano. Finalmente qualcosa di carino, ma con la fede al dito troppo in evidenza. Entriamo. Mi sento confortato, siamo tornati a casa. L’ufficio sembra la cameretta di un ragazzo di terza media: divanetto di legno curvato chiaro, scrivania, mobiletti, libreria, tende veneziane alla finestra, tutto dozzinale, lindo, luminoso come in un condominio di periferia. Lavorano in incognito, niente ufficialità, niente vetrine, cataloghi, poster, segretarie. Solo un computer e il telefono. La ragazza ci offre un caffé all’italiana, casalingo, buono, pulito, mentre lui si occupa del nostro futuro turistico. Qualche chiamata. Non si capisce niente, scuote la testa. Siamo spacciati, sta notte dormiremo in macchina, me lo sento. Invece no, miracolo. Ci ha trovato una doppia sulla costa. Hotel quattro stelle per una notte, trattamento di prima colazione, poi ci deportano a Pag, un’isola, per il resto dei nostri giorni. Di vacanza. Congedo. Ripartiamo per… Novivinodolskij. Impronunciabile, impossibile da ricordare. Secondo me non esiste, costa troppo poco.
Lungo la strettissima statale, dove ad ogni sorpasso si rischiava uno scontro frontale, constatai che dopo la morte di Tito e il conflitto con la Serbia, la Dalmazia continuava a sembrare un paese socialista, anche se non lo era mai stato. L’hotel era molto più accogliente di quanto potessi immaginare, suddiviso in due ali, la prima moderna e razionale, la seconda squisitamente liberty, romantica, monumentale. Giardini, piscine, tutto trascuratissimo, antiquato, polveroso. Da qualche parte dovevano esserci delle terme, magari prosciugate… ma ero troppo stanco per augurarmi un’inattesa Baden Banden. Ci saremo fermati poche ore, il tempo per assaggiare la tradizionale ospitalità jugoslava, basata sulla più amichevole ostilità nei confronti di noi italiani che non siamo tornati dopo la seconda batosta mondiale con moneta pregiata, come i tedeschi. Comunque, pregiata o no che fosse, quella sera avevamo qualche moneta da spendere malissimo: spezzatino di Carrara o costolette di maiale bruciacchiate con cipolle e patate disfatte, alla festa danzate nel giardino dell’hotel.
Riposammo qualche ora, doccia, telegiornale in serbo croato e poi scendemmo affamati, avvolti da un'aura d’impalpabile euforia.
Il panorama era desolante, forse per l’ora tarda: le ventuno. Lo intuii subito che non ci avrebbero serviti, ma Gigi non è certo il tipo da arrendersi di fronte all’evidenza, alla negligenza o alla pigrizia di una cameriera croata. Mentre spiravano residui effluvi di carne alla brace e salsiccia, ormai estinti, ci sedemmo ad un tavolino di ferro smaltato, apparecchiato con una tovaglia di carta unta, coperta degli avanzi di chi ci aveva preceduto. Tra un lampione e l’altro penzolavano festoni e sfilate di lampadine colorate, come usava da noi nelle feste casalinghe del dopo guerra. Io mi sentivo in imbarazzo guardando la pista da ballo di cemento, semi vuota. Lui si agitò per richiamare l’attenzione. Prima fece un cenno ad una ragazza con il grembiule, che ci guardava di lontano, poi la chiamò, infine iniziò a bestemmiare in piemontese, senza successo. Si alzò, camminando pesante come una panzer che va ad occupare una nazione nemica. Raggiunse il gabbiotto della cucina, fra un gesto di stizza e un colpo di tosse avrebbe preteso la resa incondizionata o almeno… würstel e patate fritte.
Eravamo pesti, nel cielo si ammassavano nubi gonfie d’acqua. Tornò più incazzato che mai. Niente vettovaglie, il rancio è finito, beviamo almeno qualcosa! Io una birra, lui un quartino di vino bianco fresco, la sua droga estiva preferita. Inizia a piovere deciso, di stravento, se non ci sbrighiamo ci metteremo un mese a bere il vino e la birra… annacquati.
Peccato, c’era da spassarsela: l’idea di ballare un twist o una mazurca fra pescatori e pescatrici socialiste mi esaltava. Avevo scrutato fra la gente, cercando petti d'acciaio muscolosi, sudati, anelanti al sol dell'avvenire. Solo tardone tedesche, maglie con lustrini e pantaloni ricamati all’uncinetto, qualche bellona di Zagabria a fiorami e pantaloncini ben scosciati, dalle gambe torreggianti (troppo elevate per me) e… blue jeans, imbottiti di cowboy locali, tacchi alti e camicie ricamate. Banalismo alla Raffaella Carrà, che pur è di Cesena, quindi romagnola, quindi comunista! Che delusione ideologica la Jugoslavia!
L’Uomo Ragno aveva freddato l’Uomo di Marmo e io accusavo ormai un deciso attacco di nevrastenia da digiuno prolungato.