E TORNO' A MANGIARE IL GELATO
Passava una nave da carico, enorme, minacciosa, davanti ai suoi occhi stanchi, da cui ciondolavano borse troppo gonfie per una traversata ormai alla fine. Lo scafo sovrastava di parecchi metri la linea dell’orizzonte. Tra la veranda di legno, dove il vecchio riposava, e le alte sponde della diga di sabbia, si stendeva un deserto olandese, coperto di ciuffi d’erba selvaggi e radi cespugli. Il vento duro che soffiava dal mare, sferzava ogni cosa, tranne la sua mente, incollata all’immagine di un gelato, leccato in un bosco fitto d’erbacce e rovi, di quelli dove ti graffi gambe e braccia mentre cammini e ti strappi i vestiti. Vedeva chiaramente l’altalena ricavata da un copertone d’auto sfinito.
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Cantavano densi cespugli di more mature e fiori di campo: il posto dell’infanzia, così lontana da appartenere alla vita di un altro. Era esistito secoli fa, com’era esistito un padre amico che gli regalava grossi coni di gelato con le amarene.
Il vecchio pareva inchiodato sulla sedia, che dondolando produceva un cigolio depresso sul pavimento d’abete della veranda. Aspettava che il cargo nero, con lo scafo solcato da una banda centrale rossa, passasse, per scomparire oltre l’orizzonte, come scompare ogni cosa in ogni vita: il singulto dell’ultima sirena ed il fumo dal comignolo che saluta il mondo, sbadigliando al nirvana.
Aspettava, forse, una nuova nave, ed era stato un grande amatore in gioventù. Aveva ottantacinque anni e una moglie grassa, che dormiva tutto il pomeriggio, ogni pomeriggio. Lei era l’imperatrice del paradiso perduto, quella camera da letto arredata ancora con i mobili di radica di noce, acquistati con profumate banconote di gioia e speranza, sessanta anni prima, per il matrimonio.
Era tutto ciò che aveva, la vecchiaia e una donna anziana stanca e remissiva. Remissiva da sempre, mentre lui era stato un buon ballerino di liscio ed aveva suonato davvero bene il violino… era nato nel 1920: a quei tempi il vento non era così maleducato! La nave divenne un punto, una biglia lucente, sull’estrema sponda destra della diga. A cinque anni suo padre l’aveva distratto da un enorme gelato per portarlo sul battello da pesca dove lavorava. Non ne era stato felice, ricordava chiaramente il ponte di legno, le spesse funi, gli ottoni tirati a lucido, il timone dei pirati e un fetore di pesce ed escrementi, miscelati a formare una fragranza unica. Ogni battello poteva vantarne una diversa e inimitabile, tanto che i marinai potevano riconoscere la propria galera raggiungendola ad occhi chiusi. Il vento strappò di colpo la coperta scozzese che scaldava le sue gambe, rigide come il legno fragile di un sarcofago egizio.
A sedici anni Brigitta gli chiese un bacio davanti alla chiesa: lui non sapeva come fare, lei gli aveva cacciato in bocca tutta la lingua, lui l’aveva stretta forte, iniziando a masticarla, lei gli aveva dato uno schiaffo ed era corsa via piangendo. Inesperienza. Era iniziata così la sua carriera di grande amatore, con un inseguimento e mille scuse. Brigitta l’aveva perdonato e gli aveva di nuovo infilato tutta la lingua in bocca, girandola e rigirandola come una trivella, quasi a scavargli la timidezza. Ora era costretto ad alzarsi, per inseguire la coperta, mentre partiva la nenia dei nomi: Rose, Linn, Eva, Marta, Ingrid… la schiena cigolò, mentre si chinava goffamente, con cautela, per raccogliere la coperta senza attirare gli spiriti dolenti dell’artrosi. Le aveva amate e non ricordava i dettagli. Quei nomi avevano visi che faticava a mettere a fuoco.
Passò un aereo militare ed un sibilo esagerato dilaniò le maglie del silenzio. Quegli amori l’avevano fatto godere, sperare nel futuro, soffrire. Molte gli avevano trafitto l’anima, mettendo fine a storie che per lui potevano durare in eterno. Quei nomi significavano mille cose, momenti, emozioni, batticuori, eppure i visi erano scomparsi, dimenticati, come si dimentica lo stufato di pesce e patate consumato venerdì. Già, non ricordava cosa aveva mangiato la sera prima, figurarsi l’odore d’Ingrid, il sorriso infantile di Rita, le dita affusolate di Rose…! Si portava dentro un polveroso schedario di desideri, schede scolorite, illeggibili, che neppure il respiro del nord poteva smuovere, scompigliare, portar via in mulinelli. Un botto pazzesco. L’aereo oltrepassò il muro del suono e lui riprese possesso del dondolo. Sistemò la coperta sulle gambe.
Nubi gonfie di pioggia avanzavano rapide, come un esercito d’invasori. Le guardò arrivare, mentre una lacrima fredda gli rigava la guancia sinistra, senza alterare l’immobilità del suo volto d’ardesia. Aveva combattuto la seconda guerra mondiale con i nazisti, per caso, senza convinzione. Era tornato a casa a sposare Paula: due figli maschi, seri, giudiziosi, conservatori, anzi, reazionari e un po’ razzisti. L’avvocato era a Londra, l’ingegnere ad Amsterdam. Cinque nipoti. Li vedeva solo a Natale.
Dopo il matrimonio aveva trovato impiego come contabile nello stabilimento d’essiccatura del pesce, vicino ai dock. Una vita costruttiva, odorosa di salmoni, aringhe e merluzzi… ah, il ponte della sua infanzia, presagio di sventura, ma lui era un grande amatore. La moglie sapeva: quando tornava tardi, gli straordinari li aveva fatti con qualche segretaria, eppure gli teneva la cena in caldo. Un altro aereo da guerra passa, digrignando i denti, e… quando gli americani furono cacciati dal Vietnam, non tornò a casa per un intero fine settimana. Andò così: cartellino timbrato in orario, uscita, bar del molo 13, mezza pinta di birra rossa. La figlia dell’oste gli sorride. Papà è fuori per rifornire il magazzino. La mamma è morta da tre anni di mal sottile.
Nel retro della bettola c’è un vecchio violino: - La prego, suoni per me…!
Aveva abbassato le serrande per la chiusura notturna. Era un ordine tassativo: “Linn, in questi giorni non tenere aperto il locale di sera, con tutti sti mozzi ubriachi che ti girano attorno!”
Era proprio iniziata così, fra casse di bottiglie, patate, secchi, stracci e scope. Quarantotto ore d’amore selvaggio, appassionato. Lei venticinque anni, lui tredici di più. Per cibo, pane nero, burro, aringhe e birra. Fiumi di birra. Durante gli intervalli suonava il violino: una czarda, due mazurche, un valzer triste, che sapeva di lontananza gitana.
Nella camera da letto in radica di noce, promessa di una vita nuziale felice, sua moglie russava ancora. Anche allora aveva russato aspettando un’altra bugia.
Era in pensione da venti anni e non si rimproverava nulla: vita di sesso ma anche sacrifici per la famiglia. Eticamente corretto.
Improvvisamente il suo sguardo s’illuminò di bagliori freddi. Andò in cucina ed aprì il frigorifero. Estrasse, in venerazione. Lo appoggiò delicatamente sul tavolo. Seduto, si disse, va goduto così. Aprì il rito. Gelato d’amarene. La sua vera passione. Nessuno poteva interromperlo ora. La vita aveva un significato, un senso, che lui conosceva fin da bambino, che tutti avevano complottato per distruggere.
Era stato un eccellente ballerino, aveva suonato straordinariamente bene il violino, s’era sposato, due figli, cinque nipoti, ottima pensione, aveva amato mille donne, ma questo non contava, non aveva mai contato nulla… fior di panna e amarene candite, fior di panna e amarene candite, un boccone dopo l’altro, un giorno dopo l’altro… mentre tra la veranda dell'antica casa di larice robusto, dipinta di bianco, e le alte sponde della diga di sabbia, giace un deserto olandese, coperto di ciuffi d’erba selvaggi e radi cespugli.
Il vecchio pareva inchiodato sulla sedia, che dondolando produceva un cigolio depresso sul pavimento d’abete della veranda. Aspettava che il cargo nero, con lo scafo solcato da una banda centrale rossa, passasse, per scomparire oltre l’orizzonte, come scompare ogni cosa in ogni vita: il singulto dell’ultima sirena ed il fumo dal comignolo che saluta il mondo, sbadigliando al nirvana.
Aspettava, forse, una nuova nave, ed era stato un grande amatore in gioventù. Aveva ottantacinque anni e una moglie grassa, che dormiva tutto il pomeriggio, ogni pomeriggio. Lei era l’imperatrice del paradiso perduto, quella camera da letto arredata ancora con i mobili di radica di noce, acquistati con profumate banconote di gioia e speranza, sessanta anni prima, per il matrimonio.
Era tutto ciò che aveva, la vecchiaia e una donna anziana stanca e remissiva. Remissiva da sempre, mentre lui era stato un buon ballerino di liscio ed aveva suonato davvero bene il violino… era nato nel 1920: a quei tempi il vento non era così maleducato! La nave divenne un punto, una biglia lucente, sull’estrema sponda destra della diga. A cinque anni suo padre l’aveva distratto da un enorme gelato per portarlo sul battello da pesca dove lavorava. Non ne era stato felice, ricordava chiaramente il ponte di legno, le spesse funi, gli ottoni tirati a lucido, il timone dei pirati e un fetore di pesce ed escrementi, miscelati a formare una fragranza unica. Ogni battello poteva vantarne una diversa e inimitabile, tanto che i marinai potevano riconoscere la propria galera raggiungendola ad occhi chiusi. Il vento strappò di colpo la coperta scozzese che scaldava le sue gambe, rigide come il legno fragile di un sarcofago egizio.
A sedici anni Brigitta gli chiese un bacio davanti alla chiesa: lui non sapeva come fare, lei gli aveva cacciato in bocca tutta la lingua, lui l’aveva stretta forte, iniziando a masticarla, lei gli aveva dato uno schiaffo ed era corsa via piangendo. Inesperienza. Era iniziata così la sua carriera di grande amatore, con un inseguimento e mille scuse. Brigitta l’aveva perdonato e gli aveva di nuovo infilato tutta la lingua in bocca, girandola e rigirandola come una trivella, quasi a scavargli la timidezza. Ora era costretto ad alzarsi, per inseguire la coperta, mentre partiva la nenia dei nomi: Rose, Linn, Eva, Marta, Ingrid… la schiena cigolò, mentre si chinava goffamente, con cautela, per raccogliere la coperta senza attirare gli spiriti dolenti dell’artrosi. Le aveva amate e non ricordava i dettagli. Quei nomi avevano visi che faticava a mettere a fuoco.
Passò un aereo militare ed un sibilo esagerato dilaniò le maglie del silenzio. Quegli amori l’avevano fatto godere, sperare nel futuro, soffrire. Molte gli avevano trafitto l’anima, mettendo fine a storie che per lui potevano durare in eterno. Quei nomi significavano mille cose, momenti, emozioni, batticuori, eppure i visi erano scomparsi, dimenticati, come si dimentica lo stufato di pesce e patate consumato venerdì. Già, non ricordava cosa aveva mangiato la sera prima, figurarsi l’odore d’Ingrid, il sorriso infantile di Rita, le dita affusolate di Rose…! Si portava dentro un polveroso schedario di desideri, schede scolorite, illeggibili, che neppure il respiro del nord poteva smuovere, scompigliare, portar via in mulinelli. Un botto pazzesco. L’aereo oltrepassò il muro del suono e lui riprese possesso del dondolo. Sistemò la coperta sulle gambe.
Nubi gonfie di pioggia avanzavano rapide, come un esercito d’invasori. Le guardò arrivare, mentre una lacrima fredda gli rigava la guancia sinistra, senza alterare l’immobilità del suo volto d’ardesia. Aveva combattuto la seconda guerra mondiale con i nazisti, per caso, senza convinzione. Era tornato a casa a sposare Paula: due figli maschi, seri, giudiziosi, conservatori, anzi, reazionari e un po’ razzisti. L’avvocato era a Londra, l’ingegnere ad Amsterdam. Cinque nipoti. Li vedeva solo a Natale.
Dopo il matrimonio aveva trovato impiego come contabile nello stabilimento d’essiccatura del pesce, vicino ai dock. Una vita costruttiva, odorosa di salmoni, aringhe e merluzzi… ah, il ponte della sua infanzia, presagio di sventura, ma lui era un grande amatore. La moglie sapeva: quando tornava tardi, gli straordinari li aveva fatti con qualche segretaria, eppure gli teneva la cena in caldo. Un altro aereo da guerra passa, digrignando i denti, e… quando gli americani furono cacciati dal Vietnam, non tornò a casa per un intero fine settimana. Andò così: cartellino timbrato in orario, uscita, bar del molo 13, mezza pinta di birra rossa. La figlia dell’oste gli sorride. Papà è fuori per rifornire il magazzino. La mamma è morta da tre anni di mal sottile.
Nel retro della bettola c’è un vecchio violino: - La prego, suoni per me…!
Aveva abbassato le serrande per la chiusura notturna. Era un ordine tassativo: “Linn, in questi giorni non tenere aperto il locale di sera, con tutti sti mozzi ubriachi che ti girano attorno!”
Era proprio iniziata così, fra casse di bottiglie, patate, secchi, stracci e scope. Quarantotto ore d’amore selvaggio, appassionato. Lei venticinque anni, lui tredici di più. Per cibo, pane nero, burro, aringhe e birra. Fiumi di birra. Durante gli intervalli suonava il violino: una czarda, due mazurche, un valzer triste, che sapeva di lontananza gitana.
Nella camera da letto in radica di noce, promessa di una vita nuziale felice, sua moglie russava ancora. Anche allora aveva russato aspettando un’altra bugia.
Era in pensione da venti anni e non si rimproverava nulla: vita di sesso ma anche sacrifici per la famiglia. Eticamente corretto.
Improvvisamente il suo sguardo s’illuminò di bagliori freddi. Andò in cucina ed aprì il frigorifero. Estrasse, in venerazione. Lo appoggiò delicatamente sul tavolo. Seduto, si disse, va goduto così. Aprì il rito. Gelato d’amarene. La sua vera passione. Nessuno poteva interromperlo ora. La vita aveva un significato, un senso, che lui conosceva fin da bambino, che tutti avevano complottato per distruggere.
Era stato un eccellente ballerino, aveva suonato straordinariamente bene il violino, s’era sposato, due figli, cinque nipoti, ottima pensione, aveva amato mille donne, ma questo non contava, non aveva mai contato nulla… fior di panna e amarene candite, fior di panna e amarene candite, un boccone dopo l’altro, un giorno dopo l’altro… mentre tra la veranda dell'antica casa di larice robusto, dipinta di bianco, e le alte sponde della diga di sabbia, giace un deserto olandese, coperto di ciuffi d’erba selvaggi e radi cespugli.