DESIDERARE LA POLVERE
Il mio angelo carnefice mi lanciò l'ultimo avviso per entrare nella pancia della mamma. Lottai a lungo, fuggii dal karma percorrendo luoghi austeri, ruderi di antiche civiltà, deserti, brughiere, prateria di nuvole, oceani di luce, foreste di peccati, mi nascosi tra le nubi di Saturno. Esitai in porssimità di Orione, nel ricordo dei miei amori, dei miei genitori, dei giochi di bimbo della vita precedente, degli amici e dei colleghi che avevo incontrato.
Restai lì per un tempo indefinito, nel limbo ancestrale, credendo d'essere ancora vivo, cercando di resistere al vortice che voleva trascinarmi in quella spirale di colori che mi avrebbe tolto ogni memoria di me stesso, per avvolgermi con una corda dorata e |
depositarmi nella mia casa terrena, stabilita dalle azioni delle mie precedenti vite. Pregai la Santa Vergine: comparve, additandomi umile e severa la via da percorrere: gli altri luminosi mi lasciarono fare, risero di gusto, temporeggiarono ma poi mi catturarono.
Scesi. Era il tempo in cui morivano Papa Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, Martin Luther King teneva il famoso discorso del I have a dream davanti al Lincoln Memorial di Washington e Frank Sinastra veniva rapito da Barry Keenan, Johnny Irwin e Joe Amsler. Dopo due giorni suo padre pagava un riscatto di 240.000 dollari.
La benzina costava centoventi lire al litro, c'era un solo canale Rai, un operaio guadagnava cinquantamila lire al mese e ne pagava dodici mila di affitto. Avevo una vastissima scelta fra le madri del mondo che avevano scritto alla cicogna, in quei giorni i telefoni erano scarsi: quelle con la pelle gialla e gli occhi a mandorla, le nere bantù con il nasone schiacciato, le americane alcolizzate, patite di martini dry, pancake e football, le aborigene e i loro canguri, le irlandesi dai capelli rossi, come le pinte di birra scolate al pub, o quelle che fanno gli agnolotti..
Ebbene scelsi questa meta. Presi il treno per la cucina torinese, solo che non avevo fatto i conti con la nobile povertà di periferia. Nei primi anni pasta al forno, tagliatelle, prosciutto, insalata russa, carne impanata, pollo in gelatina e giardiniera li mangiai solo a Natale. Non mi importava, perché c’era la chiesa con i muri di mattoni a vista, dedicata a San Domenico Savio, che dominava le strade assolate della domenica periferica, con quel mezzo campanile, a foggia di torretta a edicola, dove due campane segnavano il passaggio dei riti, dei sentimenti, delle stagioni, con tre accordi in do maggiore e in si. Carole di note si inseguivano festanti o tristi, secondo le circostanze, segnando il film della vita che scorreva senza mai fermarsi.
I marciapiedi erano nuovi, ampi, comodi, come quelli di un paese rinascente, rimesso in sesto ed abbellito, in via di evoluzione. La guerra era terminata da pochi anni, e le case nascevano come funghi, sempre più alte: sette, nove, dieci piani, oramai le strade asfaltate avevano dichiarato una nuova lotta armata alla civiltà contadina, per prendere possesso dei panorami rurali di Borgo Monterosa, in Barriera di Milano.
La contesa era appena iniziata quando il piccolo omino triste e malato si trasferì nel nuovo alloggio di via Cherubini, avvolto dall’amore incondizionato di mamma e papà, circondato di passato. Attanagliato da strani ricordi di vite precedenti, come quello dell’amore per una giovane giapponese. Non lo avevano lavato bene prima di rispedirlo sul pianeta.
Il folletto non sapeva d’essere sulla soglia della città dimensionale che si manifesta agli iniziati, quando sono pronunciate le parole di potere: contempla l’infinito.
Il tinello aveva un balcone luminoso che dava sulla campagna. Dal quinto piano il mondo era lì. Una sensazione d’illimitato lo invadeva, ammirando quel panorama preindustriale che odorava di fieno, terra e pioggia. La vista spaziava su prati, orti, cascine, cappelle, canali d’irrigazione, gruppi di betulle, perdendosi all’orizzonte fino alle basse del torrente Stura, Superga, le colline e le Alpi, e lontano, lontano, oltre, Milano. La magica metropoli di cui aveva letto tutto sull’enciclopedia Conoscere. Là, dove crescevano i grattacieli come a New York, parlavano una lingua simile alla sua ma tanto diversa, mangiavano il panettone, come il suo, ma tanto più buono. La città dell’industria, della borsa e della finanza non invidiava Torino, perché Milàn l’é un gran Milàn… ma la Lombardia esisteva solo come suggestione, la sua anima era alimentata dal respiro popolare subalpino.
All’imbrunire, mucche superstiti uscivano nei prati, portate al pascolo da contadini stanchi del pesante turno in fabbrica. Le guardava divertito e poteva scendere ad accarezzarle. Erano opulente promesse di eternità, marroni, bianche o pezzate. Brucavano l’erba medica e muggivano, facendo giungere il loro verso di gioia in alto, ché nei condomini tutti l’udissero!
Giocavano e i vitellini si strofinavano sul manto verde come smeraldo contadino.
Visse ancora il rito del latte fresco appena munto. Mamma Maria lo mandava nella stalla con la latta d’alluminio, dandogli le chiavi dell’ascensore.
Che poesia la pizza al tegamino e la farinata, con mamma e papà, da Fezza, la pizzeria sotto casa. Quale meraviglia le scampagnate nei prati, coperti di botton d’oro, verso il Regio Parco, e quei sabati sera dai nonni ad ascoltare i primi quarantacinque giri, pieni di Gipo Farassino, Roberto Balocco e ballate piemontesi, anche un po’ volgari.
Il nonno poteva così coccolarlo sul balcone estivo di Corso Giulio Cesare, dove passavano poche decine di macchine. Facevano a gara a chi ne vedeva di più, contandole nelle due direzioni opposte. Poi gli parlava di dinosauri, pianeti e galassie. Così iniziò l’avvicinamento degli extraterrestri, per gradi. Se si vuole comprendere la dimensione dei messaggeri, è necessario accettare la loro esistenza. Ogni essere umano, buono o cattivo, può sentirli. E’ una presenza reale, che svolge un compito preciso.
Il messaggero mormora idee, propone cambiamenti, suggerisce la soluzione a qualche problema, porta intuizioni e saggezza.
Eppure nei primi arcaici tempi, la solitudine lo possedeva e rendeva le sue ore interminabili, anche se mamma e papà lo amavano e lo amano oggi, dall’eternità dei giorni.
Una funicella lo salvò, un’umile corda superstite, levata da chissà quale pacco, che egli unì a un gancetto e fece scorrere giù dal balcone, con un bigliettino colorato da un disegnino. L’esca attese, sospesa nell’aria, in balia del vento. Il suo messaggio sventolava come bandiera bianca, come vessillo di preghiera. Esaudita. Una pesca miracolosa cambiò per sempre la vita del bimbo.
Chi sei, ci sei? Fu la risposta zen in veste di domanda, che egli lesse dopo qualche giorno, tirando su filo e amo, divenuti più pesanti. Chi sei? Ma sono io, il tuo futuro amico!
Si chiamava Pier Guido Peyronel: iniziarono a scambiarsi ambasciate di speranza e d’amore infantile, la pesca continuò per giorni e la lenza improvvisata divenne attesa fremente, sino a quando decise di chiedergli un vero appuntamento: “Ci vediamo oggi pomeriggio?” Ricordi lontani come un sogno bellissimo, i giochi in cortile in un minuscolo sgabuzzino, ribattezzato Club di Topolino. E che gioia le interminabili partire al Gioco dell’Oca o a Monopoli. La collezione delle figurine dei calciatori era poi il rituale più caro e combattuto, come la guerra fra soldatini di gomma e i giocattoli di latta.
Si consolava così, con l’amico del cuore. quando era bambino piangeva perché suo papà andava sempre via per lavorare e desiderava con ardore che tornasse da lui per coccolarlo e fare mille scarabocchi con le matite colorate.
Quando divenne adolescente piangeva perché suo papà gli impediva di fare questo e di fare quello, e desiderava con rabbia di andarsene da lui per vivere a Milano, da solo con una ragazza del quartiere, Angela.
Quando diventò adulto piangeva perché Elena, che gli aveva giurato eterno amore se n’era andata dopo averlo tradito, e desiderò con ardore di scomparire o di andare lontano anche da suo padre, per non pensare più a niente.
Quando fu maturo suo papà si ammalò varie volte: lui piangeva e sperò di poter trovare tanti soldi e una grande casa per far vivere bene lui e la sua famiglia. Ma anche desiderò con ardore di scomparire o di andare in una grotta profonda per non pensare più. Provò a pregare intensamente, ma non c’era nessuno.
Quando suo papà si aggravò, la sua anima iniziò a dilaniarsi, lui piangeva e voleva fare i miracoli che non faceva Dio, ma voleva anche fuggire da quell’uomo vecchio e debilitato, che non riconosceva. Andare lontano e non pensare più a nulla.
Quando papà stava per morire, desiderò con ardore che tornasse giovane come un tempo per coccolarlo e consigliarlo e abbracciarlo.
Quando diventò vecchio si accorse di essere solo, piccolo, piccolo: gli amici migliori erano tutti morti. Seppe che i desideri degli adulti sono più mutevoli dei capricci dei bambini. E allora desiderò di non desiderare.
Un aspirante discepolo zen chiese di poter parlare con il sommo maestro..
“Devi prima trovare una risposta a una domanda”, gli disse uno dei discepoli. “Se ci riuscirai, Lui ti accetterà come allievo fra tre anni”.
Ricevuta la domanda, il cercatore si accanì finché non ebbe trovato la soluzione al quesito.
Il rappresentante del maestro portò la risposta e ritornò con questo messaggio:
“E’ corretta. Ora puoi andare e attendere che trascorrano mille e un giorno, potrai poi ritornare per ricevere la dottrina”.
L’aspirante discepolo era felice. Ringraziato il messaggero, gli chiese: “Che cosa sarebbe accaduto se io non avessi dato la risposta giusta?”.
“Oh, in questo caso saresti stato ammesso immediatamente!”.
Il quiz zen era: "Gli abiti più lussuosi diverranno stracci, perché desiderare la polvere?"
Scesi. Era il tempo in cui morivano Papa Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, Martin Luther King teneva il famoso discorso del I have a dream davanti al Lincoln Memorial di Washington e Frank Sinastra veniva rapito da Barry Keenan, Johnny Irwin e Joe Amsler. Dopo due giorni suo padre pagava un riscatto di 240.000 dollari.
La benzina costava centoventi lire al litro, c'era un solo canale Rai, un operaio guadagnava cinquantamila lire al mese e ne pagava dodici mila di affitto. Avevo una vastissima scelta fra le madri del mondo che avevano scritto alla cicogna, in quei giorni i telefoni erano scarsi: quelle con la pelle gialla e gli occhi a mandorla, le nere bantù con il nasone schiacciato, le americane alcolizzate, patite di martini dry, pancake e football, le aborigene e i loro canguri, le irlandesi dai capelli rossi, come le pinte di birra scolate al pub, o quelle che fanno gli agnolotti..
Ebbene scelsi questa meta. Presi il treno per la cucina torinese, solo che non avevo fatto i conti con la nobile povertà di periferia. Nei primi anni pasta al forno, tagliatelle, prosciutto, insalata russa, carne impanata, pollo in gelatina e giardiniera li mangiai solo a Natale. Non mi importava, perché c’era la chiesa con i muri di mattoni a vista, dedicata a San Domenico Savio, che dominava le strade assolate della domenica periferica, con quel mezzo campanile, a foggia di torretta a edicola, dove due campane segnavano il passaggio dei riti, dei sentimenti, delle stagioni, con tre accordi in do maggiore e in si. Carole di note si inseguivano festanti o tristi, secondo le circostanze, segnando il film della vita che scorreva senza mai fermarsi.
I marciapiedi erano nuovi, ampi, comodi, come quelli di un paese rinascente, rimesso in sesto ed abbellito, in via di evoluzione. La guerra era terminata da pochi anni, e le case nascevano come funghi, sempre più alte: sette, nove, dieci piani, oramai le strade asfaltate avevano dichiarato una nuova lotta armata alla civiltà contadina, per prendere possesso dei panorami rurali di Borgo Monterosa, in Barriera di Milano.
La contesa era appena iniziata quando il piccolo omino triste e malato si trasferì nel nuovo alloggio di via Cherubini, avvolto dall’amore incondizionato di mamma e papà, circondato di passato. Attanagliato da strani ricordi di vite precedenti, come quello dell’amore per una giovane giapponese. Non lo avevano lavato bene prima di rispedirlo sul pianeta.
Il folletto non sapeva d’essere sulla soglia della città dimensionale che si manifesta agli iniziati, quando sono pronunciate le parole di potere: contempla l’infinito.
Il tinello aveva un balcone luminoso che dava sulla campagna. Dal quinto piano il mondo era lì. Una sensazione d’illimitato lo invadeva, ammirando quel panorama preindustriale che odorava di fieno, terra e pioggia. La vista spaziava su prati, orti, cascine, cappelle, canali d’irrigazione, gruppi di betulle, perdendosi all’orizzonte fino alle basse del torrente Stura, Superga, le colline e le Alpi, e lontano, lontano, oltre, Milano. La magica metropoli di cui aveva letto tutto sull’enciclopedia Conoscere. Là, dove crescevano i grattacieli come a New York, parlavano una lingua simile alla sua ma tanto diversa, mangiavano il panettone, come il suo, ma tanto più buono. La città dell’industria, della borsa e della finanza non invidiava Torino, perché Milàn l’é un gran Milàn… ma la Lombardia esisteva solo come suggestione, la sua anima era alimentata dal respiro popolare subalpino.
All’imbrunire, mucche superstiti uscivano nei prati, portate al pascolo da contadini stanchi del pesante turno in fabbrica. Le guardava divertito e poteva scendere ad accarezzarle. Erano opulente promesse di eternità, marroni, bianche o pezzate. Brucavano l’erba medica e muggivano, facendo giungere il loro verso di gioia in alto, ché nei condomini tutti l’udissero!
Giocavano e i vitellini si strofinavano sul manto verde come smeraldo contadino.
Visse ancora il rito del latte fresco appena munto. Mamma Maria lo mandava nella stalla con la latta d’alluminio, dandogli le chiavi dell’ascensore.
Che poesia la pizza al tegamino e la farinata, con mamma e papà, da Fezza, la pizzeria sotto casa. Quale meraviglia le scampagnate nei prati, coperti di botton d’oro, verso il Regio Parco, e quei sabati sera dai nonni ad ascoltare i primi quarantacinque giri, pieni di Gipo Farassino, Roberto Balocco e ballate piemontesi, anche un po’ volgari.
Il nonno poteva così coccolarlo sul balcone estivo di Corso Giulio Cesare, dove passavano poche decine di macchine. Facevano a gara a chi ne vedeva di più, contandole nelle due direzioni opposte. Poi gli parlava di dinosauri, pianeti e galassie. Così iniziò l’avvicinamento degli extraterrestri, per gradi. Se si vuole comprendere la dimensione dei messaggeri, è necessario accettare la loro esistenza. Ogni essere umano, buono o cattivo, può sentirli. E’ una presenza reale, che svolge un compito preciso.
Il messaggero mormora idee, propone cambiamenti, suggerisce la soluzione a qualche problema, porta intuizioni e saggezza.
Eppure nei primi arcaici tempi, la solitudine lo possedeva e rendeva le sue ore interminabili, anche se mamma e papà lo amavano e lo amano oggi, dall’eternità dei giorni.
Una funicella lo salvò, un’umile corda superstite, levata da chissà quale pacco, che egli unì a un gancetto e fece scorrere giù dal balcone, con un bigliettino colorato da un disegnino. L’esca attese, sospesa nell’aria, in balia del vento. Il suo messaggio sventolava come bandiera bianca, come vessillo di preghiera. Esaudita. Una pesca miracolosa cambiò per sempre la vita del bimbo.
Chi sei, ci sei? Fu la risposta zen in veste di domanda, che egli lesse dopo qualche giorno, tirando su filo e amo, divenuti più pesanti. Chi sei? Ma sono io, il tuo futuro amico!
Si chiamava Pier Guido Peyronel: iniziarono a scambiarsi ambasciate di speranza e d’amore infantile, la pesca continuò per giorni e la lenza improvvisata divenne attesa fremente, sino a quando decise di chiedergli un vero appuntamento: “Ci vediamo oggi pomeriggio?” Ricordi lontani come un sogno bellissimo, i giochi in cortile in un minuscolo sgabuzzino, ribattezzato Club di Topolino. E che gioia le interminabili partire al Gioco dell’Oca o a Monopoli. La collezione delle figurine dei calciatori era poi il rituale più caro e combattuto, come la guerra fra soldatini di gomma e i giocattoli di latta.
Si consolava così, con l’amico del cuore. quando era bambino piangeva perché suo papà andava sempre via per lavorare e desiderava con ardore che tornasse da lui per coccolarlo e fare mille scarabocchi con le matite colorate.
Quando divenne adolescente piangeva perché suo papà gli impediva di fare questo e di fare quello, e desiderava con rabbia di andarsene da lui per vivere a Milano, da solo con una ragazza del quartiere, Angela.
Quando diventò adulto piangeva perché Elena, che gli aveva giurato eterno amore se n’era andata dopo averlo tradito, e desiderò con ardore di scomparire o di andare lontano anche da suo padre, per non pensare più a niente.
Quando fu maturo suo papà si ammalò varie volte: lui piangeva e sperò di poter trovare tanti soldi e una grande casa per far vivere bene lui e la sua famiglia. Ma anche desiderò con ardore di scomparire o di andare in una grotta profonda per non pensare più. Provò a pregare intensamente, ma non c’era nessuno.
Quando suo papà si aggravò, la sua anima iniziò a dilaniarsi, lui piangeva e voleva fare i miracoli che non faceva Dio, ma voleva anche fuggire da quell’uomo vecchio e debilitato, che non riconosceva. Andare lontano e non pensare più a nulla.
Quando papà stava per morire, desiderò con ardore che tornasse giovane come un tempo per coccolarlo e consigliarlo e abbracciarlo.
Quando diventò vecchio si accorse di essere solo, piccolo, piccolo: gli amici migliori erano tutti morti. Seppe che i desideri degli adulti sono più mutevoli dei capricci dei bambini. E allora desiderò di non desiderare.
Un aspirante discepolo zen chiese di poter parlare con il sommo maestro..
“Devi prima trovare una risposta a una domanda”, gli disse uno dei discepoli. “Se ci riuscirai, Lui ti accetterà come allievo fra tre anni”.
Ricevuta la domanda, il cercatore si accanì finché non ebbe trovato la soluzione al quesito.
Il rappresentante del maestro portò la risposta e ritornò con questo messaggio:
“E’ corretta. Ora puoi andare e attendere che trascorrano mille e un giorno, potrai poi ritornare per ricevere la dottrina”.
L’aspirante discepolo era felice. Ringraziato il messaggero, gli chiese: “Che cosa sarebbe accaduto se io non avessi dato la risposta giusta?”.
“Oh, in questo caso saresti stato ammesso immediatamente!”.
Il quiz zen era: "Gli abiti più lussuosi diverranno stracci, perché desiderare la polvere?"