CHI ERA ELENA?
“E molte vite sono
morte per me sullo Scamandro, e io, che pure tanto ho sofferto, sono maledetta, ritenuta da tutti traditrice di mio marito, e rea d'aver acceso una guerra tremenda per la Grecia. “
Siate attenti, e chiedetevi sempre, chi è Elena? L’efebica bambina che corrompe l’anima adulta? La fanciulla che in età da marito, gli antichi capi greci pretesero d’avere ignuda nel talamo nuziale? La donna matura capace di farti impazzire? L’essere che tutti vogliono?! Figura mitologica assunta al cielo dell'eterno femminino, in fondo mai responsabile dei danni e dei lutti provocati dalle contese per possedere la sua bellezza.
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Una strega ignara di tanto potere, che ammalia ed annichilisce, che sana e ferisce, senza volerlo. Lo sa, Iddio benedetto, Motore Immobile che osserva, e ancora di più ne risponde Afrodite, delle Elene danzanti, vittime del loro karma linguistico-semiologico e mitologico.
Io solo, in-colpevole e sedotto Menelao, posso raccontare quale sofferenza e quale amore furente, provocarono per il solo fatto d’esistere, nella nuda e fascinosa condizione d’essere desiderate.
Là, nella romantica e seducente Verona, patria dell’amore contrastato, abitò il mio primo amore, dal dolce, ricorrente, nome: la dodicenne più bella del mondo e di tutta Rimini.
Un appuntamento estivo con un destino da spiaggia, quello dell’estate 1969, quando la conobbi o meglio quando m’incantarono i suoi grandi occhi verdi, i capelli corvini, lunghi, serici e lucenti, il visetto di promessa sposa fanciulla. Un solo bacio lieve sulle labbra, due lenti con le melanconiche canzoni dei Dik Dik e dell'Equipe 84; questo fu il compenso del timido corteggiamento, un salario amaro, che non poteva bastare, per un nome così bello ed un vestito rosso fuoco, ardente e ingenuo, in quella piccola festa d’addio, tra ragazzini in cortile.
A soli quindici anni iniziava la mia lotta armata, per riprendermi Elena, rapita dal fato e riportata a Verona da una famiglia veramente severa, “troiana”, e da un giovane zio, un Deìfobo in Lambretta, che la tenevano segregata.
Fuggii da casa in treno per rivederla: da Torino Porta Nuova a Verona Porta Nuova, cinque ore. Sbarcato nella patria di Giulietta e Romeo, vagai tre giorni nelle strade del Basso Acquar, il suo quartiere, spesso sedendomi su di una panchina, nel giardino di fronte alla finestra della sua casa, aspettando che si affacciasse.
Lo stupore fu grande, quando apparve su quel palco distante: bella, stupita, emozionata, con la sorellina mano nella mano. Come facevamo noi andando e tornando dalla spiaggia. Troppo lontana per poterci parlare; mi fece segno di tacere, portandosi l’indice alla bocca e scomparve alla mia vista, rientrando in casa. Fu quella l’ultima volta. Ci scrivemmo varie cartoline, mi mandò una catena di Sant’Antonio, poi gli auguri di Pasqua e nulla più. Telefonai a Verona anni dopo, e sua sorella mi disse che s’era sposata e trasferita a Ferrara. La mia guerra era persa?
No. Era forse meno bella la mia seconda Elena? Ancella medievale divoratrice di libri, mal abbinata ad un ricciuto Menelao di periferia, sempre scortato da un arcigno e flemmatico fratel Agamennone, dagli oblunghi capelli hippy.
Lei era la mia utopia, nata da diciassette primavere, immersa in morbidi e ampi abiti indiani, di cotonina viola a fiorellini, coronata da una folta capigliatura di ricci e boccoli crudeli. Occhi chiari, seni fiorenti, mani affusolate, magrezza ossessionante, anima nervosa alla cerca dell’amor cortese, fremente, passionale. Nacque così il romantico tradimento, quando la strinsi lievemente, cingendole la vita da dietro le spalle, affondando il mio viso fra i lunghi capelli chiari, odorosi di sensualità sconfinata. La temuta guerra di Troia si ridusse a un democratico conflitto, a un civile chiarimento a tre, con il rinnegato Menelao, che stringeva tristemente tra le mani la sua chitarra, impotente di fronte al fato marziale.
La legge del karma iniziò così a penzolarmi sulla testa come una spada affilata, pronta a tagliarmi l'anima di netto. Respiravo gelosia nella paura di ricevere lo stesso trattamento che avevo riservato, sottraendola all'altro. Era appena iniziato l'amore ma già avvertivo la fine: a Parigi tra le vecchie cose del polveroso mercato, a Rimini, nell'afa umida del tardo Agosto, tra creme abbronzanti e due pezzi con le faccine di topolino sorridenti, a Sanremo quando iniziammo a dormire in camere separate, per esigenze di spazio, dicevano gli amici che ci ospitavano.
Quella era Elena, umbratile ricordo sotto i tendoni mistici della Pensione Malvina. L’affascinante longilinea, che amava i corsi di danza moderna, l'astrologia e giocava a carte, la lettrice di poesie, fiabe e romanzi fantasy. Il Piccolo Principe, Il Gabbiano Jonathan Livingston, Il Nome della Rosa, Le Antiche Sere, La Storia Infinita, Il Signore degli Anelli, Le Nebbie di Avalon, incarnavano il decalogo del sogno eterno, la montagna ghiacciata da scalare per raggiungere l'alchemica eternità, la legge da non turbare, che in ogni punto del comandamento fu trasgredita. Finì dopo otto anni, in un conflitto freddo, gelato dalla banale noia del quotidiano e da molteplici infedeltà da parte sua con altri Paride, che trasformarono per magia il mio segreto nome in Menelao.
Fuggì da sé e dal giuramento, scese dall’altare dell’adorazione divina su cui l’avevo posta. Il bando decretò punizioni severe, ancora oggi in via d’estinzione e mise in moto l’odissea dei cuori solitari, del migrare su cigli fangosi delle donne sposate, come Anna, che mai m’avrebbe riportato ad Itaca, ché il suo nome non era quello giusto.
Itaca, non esiste, Itaca! Ma il pellegrinaggio esiste, la marcia a tappe lente e perigliose, che mi condusse alla terza Elena.
L’ennesima vittima d’Afrodite, mi pungolò con discrezione a possederla, come per uno strano gioco del fato, m’indusse a recitare ancora il ruolo di Paride, per sottrarla al suo vacuo compagno, gracile macigno che l’amava e non l’amava, che la voleva e non la voleva, la cacciava e la riprendeva, come fosse un madre-amante da temere, sicuro d’essere Ulisse e non Menelao.
Fu un amore consumato fra una risata e l’altra, tra i palchi del cabaret. Un’attrazione con poca passione da parte sua, consumata per forza ma non con forza, forse una vendetta di proporzioni infinitesimali, vissuta tra bianche lenzuola e lacrime di colpa, rabbia e pentimento. Un’avventura con sesso, ma senza innamoramento per lei, dilaniante per me, che non sopportavo d’essere rifiutato e usato.
Eppur bella la mia terza Elena, ferina creatura selvaggia, dalla pelle scura e dai capelli neri, folti e forti. Occhi azzurri, di un azzurro inquietante, penetrante, dissuadente, a volte artico come il Baltico d’inverno. Strana freddezza che schizzava in rapide ed aguzze frecce di corpo astrale, mentre il suo corpo fisico si liberava in frenetiche figurazioni di danza africana, al ritmo dei tamburi battenti di cento Orixà.
Troppo rapido il contatto fisico, pochi mesi d’incerta passione da costruire rifuggendo spesso il “il reato d'accoppiamento”, poi cinque anni d’analisi e approfondimenti, fughe, brevi amplessi, tenerezze, cucina calabrese, amici, spettacoli e speranze nel… forse è possibile stare veramente insieme. Infine… il nulla. Troppe volte la terza Elena fu abbandonata sia da Menelao sia da Paride, ed era questo il suo volere, dettato dal poter scegliere la solitudine, punzione per un peccato che sferzava le sue carni come un flagello medievale. Avrei forse potuto rimediare con un romantico viaggio a Parigi?
Vi fu, infine, nell’ormai lontana epoca della ricerca d’Itaca, la quarta Elena, quella che non cedette a Paride, pur non avendo accanto a se alcun Menelao. Questo breve catalogo mitologico non sarebbe completo se non ricordassi la graziosa biondina, che accettò e sollecitò il corteggiamento senza mai cedere alle lusinghe del raptus sessuale.
Era d’estate e nel mio andare a zonzo per la città senza meta, capitai a casa di un caro amico per un caffé pomeridiano. Ed eccola lì, seduta sul divano, minuta, con i capelli a caschetto, nel suo vestito leggero. Cosce sontuose e polpacci ben torniti si esibivano sbertucciando il modo da una gonna cortissima, scelta con metodo per attrarre occhi maschili ingordi, famelici, animaleschi.
Fumava lungo, la quarta Elena, ragazza di buona famiglia, educata ma non timida, anzi ben temprata all’assalto dell’evidente desiderio inespresso. E qui ci marciava, la ragazza, che forse qualche problema di fredda avversione per l’uomo aitante l’aveva, ma che mai avrebbe potuto ammetterlo.
Si ricreò molto, accettandomi come amico, non rifiutando il corteggiamento, ma fingendo di non vederlo. La prima cosa che pensai, quando m’invitò a casa sua, fu, anche questa... si agita e piroetta. Un'altra Elena danzante, che frequentava corsi e adorava i ritmi latino americani e la danza africana. Suonammo la chitarra, cantammo canzoni di Fabio Concato e ballammo, ahimé!
All’inizio cene, cinema, discoteche, amici comuni: poi dormimmo nello stesso letto, a casa mia, ma il mio virile e naturale “ci provo” con dolcezza, te lo faccio intuire con un fiore, o te lo dico apertamente e ti bacio, non funzionò mai, sempre messo in ridicolo o calpestato da scuse e sorrisi carini.
La speranza del gentil Paride è sempre l’ultima a… farlo morire. Galeotto di un possibile finale a sorpresa fu il week-end autunnale. Dove? A Parigi!
Carne ormai certa, pensavo, solo questione d’ore e novecento chilometri in treno. Saremo stati insieme nella stessa stanza d’albergo, nella patria del “Muro dei Ti Amo” in tutte le lingue del mondo! Quale occasione migliore se non quella di andare a trovare il caro Daniele, da pochi mesi transfuga per lavoro nella capitale francese, ospite del buon Giorgio, esule da pochi anni nella Ville Lumiere per mestiere?!
Che grande eccitazione mista al tipico “sfinimento rotabile”, quando scendemmo alla Gare de Lyon!
Breve visita agli amici, in Rue Felix Terrier, camera doppia all’Ostello della Gioventù D’Artagnan e via! La grande corsa.
In tre giorni voleva vedere tutto: Tour Eiffel, Louvre, Palais de Tokyo, Operà, Bastille, Quartiere Latino, Museo d’Orsay, Osservatorio Astronomico, Arco di Trionfo, Campi Elisi, Marche au puches, Pigalle e Moulin Rouge, Montmartre e Sacro Cuore…. Foto, foto, foto, male ai calli, e foto, e metrò disperate, da un punto all’altro della città, addormentandosi con le teste reclinate l’una sull’altra. Neppure il giro sul bateau mouche regalò al soggiorno attimi di pace, e quel bacio non arrivava, le mani si stringevano, i sorrisi si sprecavano, ma l’attesa carnalità fuggiva, col tempo che passava, come sabbia in una clessidra d’oltralpe. Montparnasse ed un ristorante di lusso, diedero il colpo finale alla storia, dopo un filetto al pepe verde davvero crudo, con patatine fritte bruciacchiate e una bottiglia di bordeaux d’annata, cari come il fuoco d’Efesto, che pagai io.
Uscita sottobraccio dal restaurant, sollecitata dai capricci della solita Venere che esige bellezza, si lamentò non poco, schifata dal sangue, dalle patate diaboliche e dal vino troppo aspro. Guizzò dalla sua testa un fumetto, dove era Marte a possedere il suo intimo sogno d’amore.
Sul ponte vicino a Notre Dame, la quarta Elena disse di sentirsi male, e mi pregò di chiamare un taxi per tornare all’ostello, prima che i conati di vomito mi constringessero a rivedere il menù. Il mio corteggiamento aveva fatto colpo... nello stomaco.
Solo un piccolissimo senso di colpa la possedeva, e in camera si scusò col musetto più simpatico e buffo del mondo, dopo aver poggiato la sua testolina matta sulla mia spalla per tutto il tragitto, da me offerto, come sempre. Quella notte dormimmo come ghiri, ognuno nel suo lettuccio.
Il giorno dopo, il Parc des Buttes Chaumont, tranquillo e discreto, mi illuminò, sollecitandomi a porre fine all’ossessione di conquistare la quarta Elena. Salii da solo, con una scusa mistica, al tempietto della Sibilla, non per godere della splendida vista sui tetti parigini, ma per implorare l'oracolo di indicarmi come distruggere quella maledizione.
Per fortuna, almeno lei mi fece il miracolo. Da quel giorno non incontrai più alcuna Elena nella mia avventurosa esistenza. Presentai la quarta Elena alla terza: divennero amiche e iniziarono a ballare insieme forsennate danze africane, invece per me il gran ballo era terminato.
Dirò, infine, che recentemente la seconda Elena è stata nuovamente a Parigi, ma con suo marito. Paride o Menelao? Parigi, Parigi, Parigi, val ben una messa! Sarebbe meglio una confessione ben fatta, con assoluzione piena per i peccati commessi? A Madda-elena e al Codice da Vinci l'ardua sentenza.
Io solo, in-colpevole e sedotto Menelao, posso raccontare quale sofferenza e quale amore furente, provocarono per il solo fatto d’esistere, nella nuda e fascinosa condizione d’essere desiderate.
Là, nella romantica e seducente Verona, patria dell’amore contrastato, abitò il mio primo amore, dal dolce, ricorrente, nome: la dodicenne più bella del mondo e di tutta Rimini.
Un appuntamento estivo con un destino da spiaggia, quello dell’estate 1969, quando la conobbi o meglio quando m’incantarono i suoi grandi occhi verdi, i capelli corvini, lunghi, serici e lucenti, il visetto di promessa sposa fanciulla. Un solo bacio lieve sulle labbra, due lenti con le melanconiche canzoni dei Dik Dik e dell'Equipe 84; questo fu il compenso del timido corteggiamento, un salario amaro, che non poteva bastare, per un nome così bello ed un vestito rosso fuoco, ardente e ingenuo, in quella piccola festa d’addio, tra ragazzini in cortile.
A soli quindici anni iniziava la mia lotta armata, per riprendermi Elena, rapita dal fato e riportata a Verona da una famiglia veramente severa, “troiana”, e da un giovane zio, un Deìfobo in Lambretta, che la tenevano segregata.
Fuggii da casa in treno per rivederla: da Torino Porta Nuova a Verona Porta Nuova, cinque ore. Sbarcato nella patria di Giulietta e Romeo, vagai tre giorni nelle strade del Basso Acquar, il suo quartiere, spesso sedendomi su di una panchina, nel giardino di fronte alla finestra della sua casa, aspettando che si affacciasse.
Lo stupore fu grande, quando apparve su quel palco distante: bella, stupita, emozionata, con la sorellina mano nella mano. Come facevamo noi andando e tornando dalla spiaggia. Troppo lontana per poterci parlare; mi fece segno di tacere, portandosi l’indice alla bocca e scomparve alla mia vista, rientrando in casa. Fu quella l’ultima volta. Ci scrivemmo varie cartoline, mi mandò una catena di Sant’Antonio, poi gli auguri di Pasqua e nulla più. Telefonai a Verona anni dopo, e sua sorella mi disse che s’era sposata e trasferita a Ferrara. La mia guerra era persa?
No. Era forse meno bella la mia seconda Elena? Ancella medievale divoratrice di libri, mal abbinata ad un ricciuto Menelao di periferia, sempre scortato da un arcigno e flemmatico fratel Agamennone, dagli oblunghi capelli hippy.
Lei era la mia utopia, nata da diciassette primavere, immersa in morbidi e ampi abiti indiani, di cotonina viola a fiorellini, coronata da una folta capigliatura di ricci e boccoli crudeli. Occhi chiari, seni fiorenti, mani affusolate, magrezza ossessionante, anima nervosa alla cerca dell’amor cortese, fremente, passionale. Nacque così il romantico tradimento, quando la strinsi lievemente, cingendole la vita da dietro le spalle, affondando il mio viso fra i lunghi capelli chiari, odorosi di sensualità sconfinata. La temuta guerra di Troia si ridusse a un democratico conflitto, a un civile chiarimento a tre, con il rinnegato Menelao, che stringeva tristemente tra le mani la sua chitarra, impotente di fronte al fato marziale.
La legge del karma iniziò così a penzolarmi sulla testa come una spada affilata, pronta a tagliarmi l'anima di netto. Respiravo gelosia nella paura di ricevere lo stesso trattamento che avevo riservato, sottraendola all'altro. Era appena iniziato l'amore ma già avvertivo la fine: a Parigi tra le vecchie cose del polveroso mercato, a Rimini, nell'afa umida del tardo Agosto, tra creme abbronzanti e due pezzi con le faccine di topolino sorridenti, a Sanremo quando iniziammo a dormire in camere separate, per esigenze di spazio, dicevano gli amici che ci ospitavano.
Quella era Elena, umbratile ricordo sotto i tendoni mistici della Pensione Malvina. L’affascinante longilinea, che amava i corsi di danza moderna, l'astrologia e giocava a carte, la lettrice di poesie, fiabe e romanzi fantasy. Il Piccolo Principe, Il Gabbiano Jonathan Livingston, Il Nome della Rosa, Le Antiche Sere, La Storia Infinita, Il Signore degli Anelli, Le Nebbie di Avalon, incarnavano il decalogo del sogno eterno, la montagna ghiacciata da scalare per raggiungere l'alchemica eternità, la legge da non turbare, che in ogni punto del comandamento fu trasgredita. Finì dopo otto anni, in un conflitto freddo, gelato dalla banale noia del quotidiano e da molteplici infedeltà da parte sua con altri Paride, che trasformarono per magia il mio segreto nome in Menelao.
Fuggì da sé e dal giuramento, scese dall’altare dell’adorazione divina su cui l’avevo posta. Il bando decretò punizioni severe, ancora oggi in via d’estinzione e mise in moto l’odissea dei cuori solitari, del migrare su cigli fangosi delle donne sposate, come Anna, che mai m’avrebbe riportato ad Itaca, ché il suo nome non era quello giusto.
Itaca, non esiste, Itaca! Ma il pellegrinaggio esiste, la marcia a tappe lente e perigliose, che mi condusse alla terza Elena.
L’ennesima vittima d’Afrodite, mi pungolò con discrezione a possederla, come per uno strano gioco del fato, m’indusse a recitare ancora il ruolo di Paride, per sottrarla al suo vacuo compagno, gracile macigno che l’amava e non l’amava, che la voleva e non la voleva, la cacciava e la riprendeva, come fosse un madre-amante da temere, sicuro d’essere Ulisse e non Menelao.
Fu un amore consumato fra una risata e l’altra, tra i palchi del cabaret. Un’attrazione con poca passione da parte sua, consumata per forza ma non con forza, forse una vendetta di proporzioni infinitesimali, vissuta tra bianche lenzuola e lacrime di colpa, rabbia e pentimento. Un’avventura con sesso, ma senza innamoramento per lei, dilaniante per me, che non sopportavo d’essere rifiutato e usato.
Eppur bella la mia terza Elena, ferina creatura selvaggia, dalla pelle scura e dai capelli neri, folti e forti. Occhi azzurri, di un azzurro inquietante, penetrante, dissuadente, a volte artico come il Baltico d’inverno. Strana freddezza che schizzava in rapide ed aguzze frecce di corpo astrale, mentre il suo corpo fisico si liberava in frenetiche figurazioni di danza africana, al ritmo dei tamburi battenti di cento Orixà.
Troppo rapido il contatto fisico, pochi mesi d’incerta passione da costruire rifuggendo spesso il “il reato d'accoppiamento”, poi cinque anni d’analisi e approfondimenti, fughe, brevi amplessi, tenerezze, cucina calabrese, amici, spettacoli e speranze nel… forse è possibile stare veramente insieme. Infine… il nulla. Troppe volte la terza Elena fu abbandonata sia da Menelao sia da Paride, ed era questo il suo volere, dettato dal poter scegliere la solitudine, punzione per un peccato che sferzava le sue carni come un flagello medievale. Avrei forse potuto rimediare con un romantico viaggio a Parigi?
Vi fu, infine, nell’ormai lontana epoca della ricerca d’Itaca, la quarta Elena, quella che non cedette a Paride, pur non avendo accanto a se alcun Menelao. Questo breve catalogo mitologico non sarebbe completo se non ricordassi la graziosa biondina, che accettò e sollecitò il corteggiamento senza mai cedere alle lusinghe del raptus sessuale.
Era d’estate e nel mio andare a zonzo per la città senza meta, capitai a casa di un caro amico per un caffé pomeridiano. Ed eccola lì, seduta sul divano, minuta, con i capelli a caschetto, nel suo vestito leggero. Cosce sontuose e polpacci ben torniti si esibivano sbertucciando il modo da una gonna cortissima, scelta con metodo per attrarre occhi maschili ingordi, famelici, animaleschi.
Fumava lungo, la quarta Elena, ragazza di buona famiglia, educata ma non timida, anzi ben temprata all’assalto dell’evidente desiderio inespresso. E qui ci marciava, la ragazza, che forse qualche problema di fredda avversione per l’uomo aitante l’aveva, ma che mai avrebbe potuto ammetterlo.
Si ricreò molto, accettandomi come amico, non rifiutando il corteggiamento, ma fingendo di non vederlo. La prima cosa che pensai, quando m’invitò a casa sua, fu, anche questa... si agita e piroetta. Un'altra Elena danzante, che frequentava corsi e adorava i ritmi latino americani e la danza africana. Suonammo la chitarra, cantammo canzoni di Fabio Concato e ballammo, ahimé!
All’inizio cene, cinema, discoteche, amici comuni: poi dormimmo nello stesso letto, a casa mia, ma il mio virile e naturale “ci provo” con dolcezza, te lo faccio intuire con un fiore, o te lo dico apertamente e ti bacio, non funzionò mai, sempre messo in ridicolo o calpestato da scuse e sorrisi carini.
La speranza del gentil Paride è sempre l’ultima a… farlo morire. Galeotto di un possibile finale a sorpresa fu il week-end autunnale. Dove? A Parigi!
Carne ormai certa, pensavo, solo questione d’ore e novecento chilometri in treno. Saremo stati insieme nella stessa stanza d’albergo, nella patria del “Muro dei Ti Amo” in tutte le lingue del mondo! Quale occasione migliore se non quella di andare a trovare il caro Daniele, da pochi mesi transfuga per lavoro nella capitale francese, ospite del buon Giorgio, esule da pochi anni nella Ville Lumiere per mestiere?!
Che grande eccitazione mista al tipico “sfinimento rotabile”, quando scendemmo alla Gare de Lyon!
Breve visita agli amici, in Rue Felix Terrier, camera doppia all’Ostello della Gioventù D’Artagnan e via! La grande corsa.
In tre giorni voleva vedere tutto: Tour Eiffel, Louvre, Palais de Tokyo, Operà, Bastille, Quartiere Latino, Museo d’Orsay, Osservatorio Astronomico, Arco di Trionfo, Campi Elisi, Marche au puches, Pigalle e Moulin Rouge, Montmartre e Sacro Cuore…. Foto, foto, foto, male ai calli, e foto, e metrò disperate, da un punto all’altro della città, addormentandosi con le teste reclinate l’una sull’altra. Neppure il giro sul bateau mouche regalò al soggiorno attimi di pace, e quel bacio non arrivava, le mani si stringevano, i sorrisi si sprecavano, ma l’attesa carnalità fuggiva, col tempo che passava, come sabbia in una clessidra d’oltralpe. Montparnasse ed un ristorante di lusso, diedero il colpo finale alla storia, dopo un filetto al pepe verde davvero crudo, con patatine fritte bruciacchiate e una bottiglia di bordeaux d’annata, cari come il fuoco d’Efesto, che pagai io.
Uscita sottobraccio dal restaurant, sollecitata dai capricci della solita Venere che esige bellezza, si lamentò non poco, schifata dal sangue, dalle patate diaboliche e dal vino troppo aspro. Guizzò dalla sua testa un fumetto, dove era Marte a possedere il suo intimo sogno d’amore.
Sul ponte vicino a Notre Dame, la quarta Elena disse di sentirsi male, e mi pregò di chiamare un taxi per tornare all’ostello, prima che i conati di vomito mi constringessero a rivedere il menù. Il mio corteggiamento aveva fatto colpo... nello stomaco.
Solo un piccolissimo senso di colpa la possedeva, e in camera si scusò col musetto più simpatico e buffo del mondo, dopo aver poggiato la sua testolina matta sulla mia spalla per tutto il tragitto, da me offerto, come sempre. Quella notte dormimmo come ghiri, ognuno nel suo lettuccio.
Il giorno dopo, il Parc des Buttes Chaumont, tranquillo e discreto, mi illuminò, sollecitandomi a porre fine all’ossessione di conquistare la quarta Elena. Salii da solo, con una scusa mistica, al tempietto della Sibilla, non per godere della splendida vista sui tetti parigini, ma per implorare l'oracolo di indicarmi come distruggere quella maledizione.
Per fortuna, almeno lei mi fece il miracolo. Da quel giorno non incontrai più alcuna Elena nella mia avventurosa esistenza. Presentai la quarta Elena alla terza: divennero amiche e iniziarono a ballare insieme forsennate danze africane, invece per me il gran ballo era terminato.
Dirò, infine, che recentemente la seconda Elena è stata nuovamente a Parigi, ma con suo marito. Paride o Menelao? Parigi, Parigi, Parigi, val ben una messa! Sarebbe meglio una confessione ben fatta, con assoluzione piena per i peccati commessi? A Madda-elena e al Codice da Vinci l'ardua sentenza.