COME INIZIA UN SOGNO
"Ma in quanti siete voi altri?" "A migliaia, sulle autostrade, lungo le ferrovie abbandonate, vagabondi all'esterno, biblioteche dentro." "Non siamo che sopra coperte di volumi, privi d'ogni altra importanza che non sia quella d'impedire alla polvere di seppellire i volumi. Alcuni dei nostri vivono in piccole città, in paesi e villaggi: il Capitolo primo, il Walden di Thoreau, abita a Green River, il Capitolo secondo a Willow Farm, Maine; diamine, c'è un paesino nel Maryland, con soltanto ventisette abitanti, nessuna bomba colpirà mai quel villaggio, che rappresenta la raccolta completa dei Saggi di un uomo chiamato Bertrand Russel. E quando la guerra sarà finita, uno di questi giorni, uno
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di questi anni, si potrannoriscrivere i libri, e la gente sarà chiamata, le persone verranno a una a una a recitare quello che sanno e noi ristamperemo ogni cosa, fino a quando le tenebre di un nuovo Medio Evo non ci costringeranno a ricominciare tutto da capo."
Ray Bradbury - Fahrenheit 451
Ray Bradbury - Fahrenheit 451
Ebbene, sono una sopracoperta. Un niente. Per anni mi chiesi quale fosse il senso della vita, che cosa dovessi fare per acquistare valore agli occhi della mia famiglia, dei miei amici, ma soprattutto di me stesso e del mondo, per diventare libro, per essere personaggio e non estraniato osservatore. Questa spinta interiore mi costrinse a vagare, tentando di essere questo o quello, conformandomi all'una o all'altra esigenza, a questo o a quell’ambiente. Il mio Ego può raccontare vicende strane, in mondi tanto diversi tra loro che il sé da se si stupisce, per la sua imbecillità. Descrivere quanto ho visto e percepito è difficile. Potrei scrivere per rimproverare l’arroganza che brama di espandersi agli occhi degli altri ego. Potrei trattare della superbia, cioè del peccato tout court, e delle persone importanti, quelle che contano agli occhi di chi non ha identità e paga per vederne altre dar spettacolo. Ma non m’interessa. Scriverò soltanto per ricordare.
Scorrendo nel tempo a ritroso, come se fossi immerso in un placido fiume, ecco il primo personaggio famoso da me conosciuto. Un cantante, un attore, un re, direte voi cari lettori! Pinocchio? No, un calciatore della Juventus e poi del Napoli: Flavio Emoli.
Lo conobbi a dieci anni in ferie nell’astigiano, nella ridente Camerano Casasco. Era in qualche modo imparentato con la marchesa del luogo, non so n’avesse sposato una figlia o se fosse suo nipote: la nobildonna era decaduta ma non così in basso da vendere il maniero di famiglia. La villa dominava la piazza del paese, e spesso apriva i portoni per noi bambini che s’andava a giocare nel giardinetto, invitati dai nipotini della signora, riverita e temuta come in pieno medioevo. Di Flavio Emoli ricordo qualche palleggio sul prato ed una notevole riservatezza, travestita da scontrosa alterigia, tanto che mi sembrò poco simpatico, anche nei confronti dei nipoti.
Ma ecco il vero eroe dei miei primi sogni di gloria. Immacolata, una delle nove sorella della mamma, agli inizi degli anni ’60 per arrotondare, affittava camere nella sua casa di Milano. E, guarda caso, tra i suoi inquilini c'era Adriano Celentano, nonché alcuni suoi amici. Avevo sette anni. Ricordo solo qualche pettegolezzo di famiglia durante il caffé del pomeriggio. Pare che la relazione d’affitto fra l’astro nascente del rock italiano e zia Immacolata non fosse buona. Pare, inoltre, che la colpa del divorzio, fu l’eccessivo disordine dei ragazzi, la sporcizia lasciata nelle stanze, l’odore di chiuso, sudore e fumo vecchio e le cicche di sigarette sparse ovunque, tra divani e moquette bruciacchiate. La zia mi riferì, anche, di un debituccio in sospeso. Lascia stare, Adriano, non è il caso dopo tanti anni.
Il ragazzo della Via Gluck, nella mia testolina di sognatore, costituì un incentivo all’identificazione con le vedette dello spettacolo, e non ero il solo in famiglia. Mia cugina era cantante e ballerina, ed aveva sposato un fantasista emergente, che non emerse mai, e ancor oggi esercita la sua professione di fantasista. Forse qualche lettore attempato ricorderà il marinaio snodato con la bocca enorme, che ingoia le tazzine da caffé. Questa storia non riguarda due pezzi grossi, bensì due persone che tentarono di diventare personaggi. Mia cugina, che non tornerà nella narrazione, sposò in seconde nozze un chitarrista inglese, che suonò nei Primiteves o negli Animals, non ricordo bene. Lo stesso divenne l’amante di una nota cantante dell'epoca che si rovinò per lui. Così si diceva. Ma tutte le storie di droga e depravazione, sono sicuramente menzogne. E poi nel mondo dello spettacolo la droga e il sesso scorrono a fiumi. Lo sanno tutti.
L’importante è che dal greve malignare, oggi si direbbe gossip, scaturisse in me il desiderio d’essere qualcuno. Il nome di Celentano spunterà nella mia vita più tardi, ad esempio, quando conobbi Ricky Gianco dopo un concerto ad una festa dell’Unità, al Parco Sempione di Milano. Andammo a trovarlo, io ed il mio socio, Valerio Peretti, per commissionargli le musiche di uno spettacolo di cabaret. Rividi Ricky Gianco una settimana dopo. Fissò un appuntamento a casa sua per portargli il copione. Ci ricevette senza formalità, con simpatia. Di quella mattina, forse dieci minuti in tutto, ricordo quel simpatico viso da gnomo con i baffetti, l’accappatoio bianco di spugna e una sorta di galleria da cinema che guardava il salone, elegantemente arredato con mobili in stile impero o direttorio, ottocento insomma, laccati di chiaro, mi pare. Richy Gianco mi comunicò una certa bonomia: dietro all’uomo di spettacolo, c'era una bella persona, seppur amareggiata per non aver raggiunto un più ampio successo, che avrebbe meritato.
Ritorniamo ad Emoli. Passarono anni prima di poter nuovamente incontrare un essere umano degno di nota, intendo dal punto di vista del successo. Una domenica pomeriggio d’inverno, ebbi però il coraggio di chiedere l’autografo a Cochi e Renato, dopo aver visto il loro spettacolo al Carignano di Torino. Si esibirono anche Felice Andreasi e Lino Toffolo, Paolo Villaggio e i Fratelli Santonastaso. Forse perché il teatro non era pieno, forse perché erano stanchi, forse perché non amavano Torino, non mi sembrarono simpatici come in televisione. Anzi, Renato, decisamente scontroso, non ci guardò neanche in faccia. Firmò la foto con gli occhi rivolti verso il cielo nuvoloso. Infatti, la firma sbilenca andò a coprirgli gli occhi. Cochi, tese le labbra in un sorrisetto forzato d’imbarazzo. Eppure, nonostante la mia timidezza, nonostante la mia estrazione proletaria, intuivo che prima o poi sarei entrato nel mondo dello spettacolo, facendo di me stesso un volto noto e invidiato, non sapevo come, ma ero certo che il Cielo mi avrebbe regalato tutto questo, quasi me lo avesse dovuto. Non fu così: in effetti, il destino mi pose di fronte le occasioni che tutti gli arrampicanti avrebbero arraffato con sommo gusto, ma quando si presentavano mi paralizzavano. Non seppi sfruttarle, per introversione, o meglio, per il turbamento di cosa significava discostarmi dalle mie origini, per aggiungere finzione all’illusione d’esistere.
La spinta iniziale al mutamento arrivò da Gabriella, con la quale ebbi una lunga e composita storia, relazione, psicodramma? Ma chi era Gabriella, direte voi!? Una principessa, una regina?! No, cari lettori, Gabriella era un’attrice di prosa e grazie a lei iniziai a frequentare Pinocchio: il mondo dello spettacolo; non per mettermi in mostra e trovare una via personale al successo. No. Solo per osservare, continuando a dirmi che l’entrata in scena andava preparata con cura: non era mai il momento giusto. Insomma, la timidezza mi frenava, ma non così tanto da impedirmi di esserci in ogni occasione, appartato, taciturno, invisibile, senza essere notato, senza essere ricordato. Una splendida posizione per descrivere.
Il Festival del Teatro d’Avanguardia di Chieri mi rivelò, finalmente, che cosa conteneva il sepolcro imbiancato dello spettacolo: fascino e terrore. Significava, innanzi tutto, diventare Fariseo: esibirsi sempre, parlare più forte degli altri, sgomitare, entrare nella finzione assoluta, sia in scena sia nella vita ordinaria, che ordinaria non doveva mai essere. Il mio orgoglio, ma anche il giudizio, m’impediva di avvicinarmi a chicchessia per fargli un complimento o informarmi di questa o quella cosa. Non volevo neppure sforzarmi d’essere simpatico, servile, invadente. Ero innamorato di Gabriella e la seguivo, furente di gelosia, ecco tutto, incapace di dissuaderla dal progetto di incalzare la gloria. Anche perché il mio ego covava lo stesso desiderio, stritolandomi la mente. Ora dovrei scrivere di Carlo, che tentò la via olimpica con determinazione, agguantando per qualche istante le nuvole.
Con Carlo s’iniziò un’amicizia competitiva e stimolante, che vedeva me nel ruolo di supporter e Carlo in quello di protagonista da seguire. O almeno, così mi sembrava, o così m’induceva a credere lui, che tutto faceva per nutrire la competizione con se stesso e con me. Carlo amava l’altrui invidia e desiderava affetto e stima. Io pure. Non è qui il caso di approfondire l’analisi psicologica di tale rapporto. Con Carlo e Gabriella iniziò la penetrazione nel mondo dell’essere qualcuno. Chieri fu la cornice da cui si dipanò l’azione, un’azione per certi versi intricata dal punto di vista narrativo, che io e la confederazione di alter ego passati, cercheremo di descrivere in modo comprensibile.
Batti e ribatti, cerca e ricerca, prima o poi il muro cade e si apre una via. Mentre osservavo se n’aprirono addirittura due, contemporaneamente. Carlo entrò a far parte del Gran Serraglio, compagnia teatrale di disgregati che metteva in scena disgregati spettacoli d’avanguardia (teatro sperimentale). Carlo non mi fece partecipe del rinvenimento di quel tesoro, ma aspettò qualche mese per... acclimatarsi, diceva. Nel frattempo Gabriella entrò a far parte di un’altra strana compagnia, condotta da un ragazzone di nobile famiglia. Il giovine rampollo Michele Ghislieri: non ricordo se duca, conte o marchese, ma di sicuro pro, pro, pro, pro, nipote di un famoso papa del rinascimento. La prima cosa che imparai, frequentando sia la prima sia la seconda compagnia, fu che il teatro, anche sperimentale, possono permetterselo solo i ricchi, figli d’industriali, latifondisti, nobili, finanzieri, benestanti sui generis, o i figli dei figli dei papi, che adoprano paghette stratosferiche per il proprio divertimento, anche se sono scappati da casa, dalla villa, o dal castello. Sono capaci di dilapidare vere fortune, in trattorie, bar, alcool e luci di scena, intere eredità! Giuro.
Al primo appuntamento fra Gabriella e Michele pretesi d’esserci anch’io, nel ruolo di fidanzato: con lo spettacolo non c’entravo un miserere. Ci trovammo al Caffé dell’Hotel Ligure di fronte alla stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova. Un incontro piacevole: Ghislieri mi affascinò con i suoi modi blasè, vagamente gay, simpatici e affabili. Pensai che avrebbe potuto benissimo trovare impiego come maggiordomo o autista.
Il copione dello spettacolo sarebbe stato tratto da un libricino appena pubblicato a sue spese, una sorta di novella dell’assurdo, in bilico fra Magritte, Beckett e Maigret, tanto era misteriosa: “Bianca, Principessa di Brema e di Forlì”. I colleghi di Gabriella erano attori ignoti in cerca d’autore, ma non certo d’estrazione proletaria. Citarli porta lo scritto fuori tema, perché non sono divenuti famosi, ma è utile a dare logicità al ricordo: Nadia Ferrero, Gisella Bein, Beppe Tosco, Piero Caretto e il simpatico guascone Franco Cotugno.
Gossip: la moglie di Piero Caretto, Piera Bassino, era molto amica di un certo Piero Ferrero, e aveva una sorella, la pittrice Pina Bassino, che dopo qualche anno sarebbe divenuta la moglie di Pippo Franco. A quei tempi avevano una villozza rustica nei pressi di Santena. Di loro non parlerò, anche perché Pippo Franco non l’ho conosciuto, dirò soltanto che fra Pieri, Piere, Pine e Pippi, le P. P. si sprecavano, e non erano certo quelle di Pier Paolo Pasolini o di Pier Capponi!
In quel periodo, fra il 1974 ed il 1977, di giullari, fanciulle, madonne, puttane, tiranni e politici ne vidi tanti, ma pochi assursero a fama universale. Comunque, seppur in incognito, ero al centro degli eventi ed osservavo, stringendo la mano quasi a nessuno e parlando con ancor meno persone. Ma c’ero sempre. In questo spazio immaginato s’accendeva una sorta d’euforia tesa al giudizio: a volte all’invidia, a volte al disprezzo. L’invidia era riservata a chi riusciva bene, nel fare qualunque cosa, il disprezzo a chi voleva provarci lo stesso facendo magre figure. Tanto io non potevo essere paragonato a nessuno. Io guardavo, ascoltavo e registravo, registravo così bene che se dovessi scrivere tutto ciò che so, qualcuno potrebbe offendersi. Ma non ci tengo a farmi citare in tribunale,voglio solo giocare al ricordo. Senza insultare nessuno. I cosi detti grandi (ma anche medi) fanno parte della mia vita ed ho tutto il diritto di parlarne, se li ho incontrati.
Al Festival del Teatro d’Avanguardia di Chieri, il primo gigante che vidi da vicino, e al quale strinsi anche la mano, fu Aldo Trionfo. Regista teatrale, stimato e visionario, barocco e sanguigno, direttore artistico del Teatro Stabile di Torino. Nella manifestazione era forse un rappresentante del comitato direttivo, se non il comitato direttivo stesso. La questione era grave: il Gran Serraglio voleva un certo spazio in cui mettersi in scena, ma dopo una prima risposta positiva, la cosa era stata messa in forse. L’esibizione della compagnia, in effetti, richiedeva un ampio spazio aperto. Io mi unii da osservatore, senza parlare, alla rappresentanza sindacale del Gran Serraglio, che a quei tempi contava circa venti persone in organico, fra attori, figuranti e tecnici. I ruoli non erano rigidi. Da un giorno all’altro un figurante, vale a dire un principiante che non sapeva recitare, poteva uscirsene con una trovata gradita al regista o adularlo (con intelligenza), ed ecco che diventava attore. La stessa cosa valeva per i tecnici. Ma poteva anche capitare che un attore d’esperienza dicesse o facesse qualcosa di sgradito, una critica inopportuna ad esempio, e come in tutte le comunità anarchiche oligarchiche più democratiche, poteva trasformarsi in manovale, andarsene o gioire di entrare in scena senza battute. D’altra parte la parola non era importante nel teatro d’immagine. Insomma, era un… gran serraglio.
Aldo Trionfo uscendo, non ricordo da quale palazzo, si trovò circondato da una masnada d’attori vocianti. Sudava abbondanza, indossando un abito chiaro di lino, un cappello a larghe falde e un foulard di seta al collo, nella miglior tradizione novecentesca, pronto per lo yacht, il tabarin o il casinò. Qualche spintone, parole, rassicurazioni: - Avrete ciò che vi serve.
Troppo generico, eppure la parola non era importante nel teatro d’immagine. Forse in quel caso sì. Aldo Trionfo non m’impressionò. Pareva un personaggio d'altri tempi, saltato giù da un film di Blasetti o di Camerini, non il cantautore, il regista cinematografico della Cinecittà mussoliniana. Pensai di non avere alcun’attinenza né con Bottai né con un siffatto emblema: mi parve, come dire, antico e grassoccio. Ricordava, col senno di poi, il Craxi degli anni ’80. In effetti, oltre alla prosa digeriva, o dirigeva, anche opere liriche, quale figlio spirituale di Caruso e della Taglioni: cognomi strani, che non torneranno nel racconto, ma evocano un tempo di splendidi tormenti artistici.
A Chieri nacque il primo dubbio. Non deve essere piacevole lavorare con un grande in età avanzata, che neppure sapeva quanta gliene restava da vivere. O con un compositore in via di decomposizione. Invece molti giovini oltre a lavorarci un po’ su, avrebbero anche accettato di dormirci, pur di avere una parte nel “prossimo spettacolo”. Io ero lì per giocare, per guardare e per trovare strade, in sintesi, per diventare famoso senza compromessi e senza obblighi di comunicare con chi non mi stava simpatico. Ero un genio. Non volevo unirmi né psicologicamente, né carnalmente, con chi non mi piaceva, che fossero pur donne mature, ragazze, giovanotti o vecchi burbanzosi, che non m’interessavano neanche culturalmente. Avevo venti anni! Niente compromessi, scusate la superbia, ma io sapevo che quello era il modo giusto per diventare ricco e famoso.
Nell’apparente disordine dei ricordi, devo ritornare a Gabriella ed allo spettacolo diretto da Michele Ghislieri. Non lo descriverò, bastano alcuni passaggi: “…il tuo vestito è maltagliato, stretto, logoro, ma tu sei bello violinista, e suoni bene. Suona. Sedette a culo nudo sulla croce e rinnegò il battesimo e la corte celeste…
Io non saluto chi per primo non mi saluta… Bianca, principessa di Brema e di Forlì morì di consunzione.” Questo per introdurre l’entrata in scena di un personaggio noto, che sino a quel momento non sapevo neppure chi fosse. Dopo la prima uscimmo da teatro, Gabriella io e una sua amica attrice anch’ella: Caterina Rochira. Tra un gruppo di spettatori alle nostre spalle, dal fondale del brusio, si staccò un ragazzo alto, un po’ massiccio, col capello riccio, la mascella volitiva e gli occhi azzurri. Si avvicinò senza indugio, senza presentarsi, senza preliminari, parlò con Gabriella: “Sei brava, mi hanno detto bene di te, ho visto lo spettacolo. Ti interesserebbe lavorare per il Teatro Stabile di Torino?” Gioia, gaudio et spes negli occhi della mia fidanzata. La fortuna si era accostata alla sua gonna, pensai. Gelosia furente mi colse. Già pregustavo l’annientamento, la dipartita da casa, il tradimento, gli appostamenti per controllarla. Invece no, quel giovanotto non aveva certo bisogno di filarsi la mia donna, lui era un mito delle scene torinesi: l’attore giovane dello Stabile. Ecco come entrò nella mia vita Franco Branciaroli. Io nella sua entrai raramente e di sfuggita, ma lui mi ruppe particolarmente los marones nel privato. Involontariamente, s’intende.
Il pensiero più ricorrente nella testa di un personaggio noto, che è avvicinato da amici, nemici e sconosciuti è : “Cosa vuole questo?!” Non sì dà il caso che qualcuno lo importuni così, tanto per fare due parole. No, chi accosta un uomo o una donna importanti, vuole qualcosa: subito, poco dopo o poco più in la del poco dopo.
A questo punto del racconto desidero cambiare ambientazione, parlandovi di un altro uomo illustre, non legato al mondo dello spettacolo. Si fa per dire … se la politica non è spettacolo!…
Il periodo è lo stesso, anno 1974, autunno. Mi diplomai in “Segreteria d’Amministrazione”, attestato quinquennale simile a quello di perito aziendale. Non avevo ancora venti primavere, ma l’ottimismo mi assicurava che di fronte a me si sarebbero schiusi i campi elisi.
Fra gli amici di Paolo, il ragazzo che divideva con me e Gabriella l’appartamento in cui abitavamo, c’era una coppia di giovani sposi, appartenenti alla buona borghesia napoletana. Emigrati di lusso, s’intende, in quanto lui, Roberto Coppola, lavorava quale segretario personale dell’onorevole Giorgio La Malfa, presso il Centro Studi di Politica Economica, legato al Partito Repubblicano Italiano. La moglie, Chiara, apparteneva alla famiglia Maresca, molto nota a Napoli, tanto da vantare tra i suoi antenati più recenti ‘noti’ ascendenti.
Dopo le vacanze estive bastò una telefonata e Roberto mi disse sì. Avrei lavorato con La Malfa, con un assegno da borsista, a condizione che mi fossi iscritto alla facoltà di Economia e Commercio. Accettai con entusiasmo, in quanto detestavo bilanci, organigrammi, statistiche e matematiche in genere, ma lo stipendio non era male. Il primo compenso mensile della mia vita! Per riconoscenza mi iscrissi ad Architettura.
Quella mattina di fine settembre ebbi il colloquio con La Malfa. Veloce, informale, senza esami. Un okay facile, insomma, anche perché la votazione d’uscita alla matura era buona. Che dire del giovane La Malfa? Una persona a modo, seria, educata, non proprio simpatica ma molto equilibrata. Un uomo pignolo, retto come la squadra e tondo come il compasso, un vero muratore in doppio petto, appartenente allo stesso cantiere di Mazzini e Garibaldi. Sono tentato di trattare questo lungo episodio di nove mesi circa rapidamente, perché la politica è poco divertente. Invece, ecco, voglio tediarvi, come io fui tediato da quel gran impegno creativo ed organizzativo. Analisi finanziarie: dovevo copiare i bilanci di varie aziende ed enti nazionali, facendoli convergere in un gran bilancio generale, che avrebbe, forse, potuto delineare un quadro dell’economia statale e para d’Italia. S’intendeva dimostrare, alla fine della fiera, un’estesa, cattiva amministrazione. Quante cose sono cambiate da quei giorni lontani! Erano prossime le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976. I reazionari, temevano il sorpasso delle sinistre che già dominavano le piazze: non avvenne per un pelo. Peccato, se fosse accaduto Aldo Moro si sarebbe risparmiato il rapimento del marzo ’78 e la successiva, assurda, esecuzione sommaria. Piero divenne mago delle ingiurie silenziose e dei rabberciamenti di bilancio, trascorrendo lunghe ore amanuensi. Un giorno, finalmente, mancarono i bilanci per proseguire il lavoro. Mi domandarono di andare in giro per il nord Italia a cercarli, presso vari centri studi. E io ci andai, riservandomi però, da quel momento, di entrare in ufficio ogni mattina con Lotta Continua in tasca. Ovviamente, se i bilanci mancavano, i conti non tornavano, e io fui dirottato a ritagliare articoli per l’archivio dell’ufficio stampa. Poco prima delle elezioni, ricevetti una bella lettera di ben servito, senza liquidazione e senza errori di grammatica e di sintassi. In tutta quiete, avevo fatto più danni della tempesta che abbatté il colosso di Rodi. Mi complimentai molto con il sovversivo che covavo in seno.