CLONE
Pochi giorni prima del Santo Natale il Ministro delle Catastrofi Permanenti Tricolori aveva dichiarato lo stato di calamità prefestiva. La riproduzione di Roma in scala 1:1, costruita dopo il terribile botto del 2020 era imprigionata in una morsa di gelo artificiale: dieci gradi sopra zero. La città eterna, cioè… la sua imitazione in puro polietilene espanso, giaceva inattiva, paralizzata sulle sue angosce, coperta da tre millimetri di neve. Finta. La popolazione non usciva da giorni, barricata nei drum-drum bar, nelle trattorie “Da Mario”, incatenata ad abbacchi transegenici, avvinta a perfidi spaghetti all’amatriciana, stremata da code alla vaccinara sintetiche e da grappini
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virtuali, velenosissimi, e un caferino. E’ sazio? Sono sazio ma non pago, paga tu, faccia di merda!
Presso un semaforo di Via… scusate, a Via del Corso, sostava il clone di un antico presidente del consiglio. Scalzo, lacero, orfano e profugo: tutte le sfighe. Il piccolo-grande clone aveva un secchio d’acqua insaponata e una spazzola lavavetri. Gli automobilisti si commuovevano molto. Visto che i profughi di solito sono tristi ed amano gli scherzi, si divertivano a ripartire di scatto non appena il semaforo laser tornava blu, facendo finta di metterlo sotto. I più buoni si facevano lavare il cupolone dell’astro vettura anche dietro, e quando era ben insaponato ingranavano la retro e via!
Nel frattempo il nevischio gommosteroidale continuava a posarsi sul capoccione del clone, coperto di radi capelli sfibrati, ormai fradici di colla e umidità. Poco male, ben presto gli sarebbero caduti tutti, così, povero com’era avrebbe risparmiato qualche soldo di shampoo.
Stanco di un cagnolino meccanico che ogni dieci minuti passava a salutarlo per fargli pis pis sulle gambe (poverino, soffriva anche di artrosi), decise di andare a cercar fortuna al semaforo successivo.
Cammina, cammina, cammina, vide in un parco un disgraziato che sedeva su una panchina. Era un assessore al traffico di organi, indagato, sfrattato, vedovo di tre mogli, padre di una porno diva e di due ragazzi grassissimi, affetti dal morbo di Hamburger, di cui uno cieco e l’altro concorrente al festival di Sanremo, ma in galera per aver rapinato il carcere di Bordighera.
Il clone gli si avvicinò, con l’intenzione di chiedergli una gomma da masticare al cianuro, in vendita da tabaccai per risolvere in fretta le situazioni troppo complicate.
Ma non s’ebbe il tempo di proferir parola che un calore improvviso avvampò, un fuco caldo ed invitante s’accese come un lampo. I due corsero in quella direzione, felici e famelici di calore, per unirsi ad un gruppo d’armeni, vocianti e infreddoliti. La fiamma ardeva intensa, ma l’odore era alquanto sgradevole, acre, come di… benzina. Non emaneranno profumi soavi, ma i neo nazisti bruciano bene.
Quel parco non finiva di meravigliarli. Ecco una musica allegra, accompagnata da cori e slogan: “Venghino, venghino, più gente entra più bestie si vedono!”
Il clone si avvicinò incuriosito ad una grossa gabbia del circo. Che spettacolo agghiacciante! Nella stretta costrizione, ringhiavano nervosamente alcuni oranghi tristi e tre sindacalisti disoccupati. Mosso a pietà, decise di regalar loro ciò che ancora possedeva e gettò l’ultima manciata d monete tra le sbarre, poi, confuso, nascose la fionda e si guardò attorno. Le strade erano stracolme di gente dall’aria abbrutita, decisa a comprare tanti tanti babà alla crema e maritozzi ai loro bambini. Un modo come un altro per eutanasiarli senza sensi di colpa.
Il pallido profugo clonato, desiderava abbrutirsi un pochino anche lui. Pensava: “Che fame! Che freddo! Vorrei esser un tacchino ripieno in un forno ben caldo!” E cadde sfinito nella neve, in ginocchio, reclinando il capo: su questo un colombo di passaggio fece i suoi bisogni.
La realtà è crudele, ma proprio in quel momento, tra gli impalpabili fiocchi di neve che danzavano lentamente, scendendo dal cielo, un bagliore lo abbagliò, una luce accecante lo accecò…
Riavutosi da quel lampo (come di magnesio sul manganesio), iniziò a distinguere una figura misteriosa. Era, forse, la fatina turchina, in trasferta, nel suo elegante ma sobrio tailleur azzurro, con borsetta e tracolla d’ordinanza, ed un elegante cappelletto a bustina in testa?
Il povero clone disse: “Mi scusi, hostess dell’Alitalia, non c’avrebbe duecento euro per un panino?!”
“Sciocco”, rispose la ragazza in bolognese, “me zon la fata, socmél!”
“Socmél, fata”, disse il clone, “è il fato che ti manda!”
“Ma coza dizi, me zon signorina! Comunque e per dunque, me zon qui perché te esprimi i tuoi desideri più reconditi!”
Piano sequenza: il disgraziato giunge le mani violette di freddo, ormai tendenti al fucsia, sulle quali si può notare un principio di lebbra secca. Si concentra.
Et voilà, comparve nella mani della fata un magnifico dolce di panna montata, guarnito di canditi e ciliegine. Premurosa la fatina assaggia la torna. E’ buona, si capisce da un cenno d’assenso del capo. Stacco. Piano stretto di lei: la porge al clone del presidente del consiglio.
Controcampo: gliela spiccica in faccia!
Mentre l’ometto, rantolando carponi tenta di raccogliere la panna tra la neve, la fatina decide di dar libero sfogo alle desideranza (neologismo composto).
Le forme pensiero del clonetto iniziano a materializzarsi in un crescendo spettacolare teso all’ingordigia, ma senza alcun nesso semantico fra loro, come i pensieri di tutti gli uomini politici italiani. Ed ecco piombar giù dalle stelle un enorme cosciotto di prosciutto crudo, che tramortisce un arabo di passaggio: la carne di maiale non fa bene ai musulmani.
In seguito precipitarono dal cielo: un blocco di lardo, trecento forme di pane toscano tradotte in milanese, un’anguilla marinata di Copparo, dodici etti di grissini torinesi con un accento tremendo, sei piatti di orecchiette baresi con le cime di rape, otto pizze alla napoletana, sei birre medie tedesche, tre tiramisù, due caffé e… il conto.
Un attimo di tregua. Poco dopo, ma veramente dopo poco, ecco che i desideri ripresero a cadere dall’alto. E venne giù qualcosa di veramente inatteso, di veramente grosso, ingombrante, petulante, fastidioso: Giuliano Ferrara. Il simbolo della tolleranza culinaria si posò sul testone del piccolo-grande clone, schiacciandolo sotto il peso della cultura giornalistica liberista e liberale.
La pioggia continuò, incurante del botto: brandy spagnolo, frutta fritta cinese, un barile di burro salato danese, e poi… marmellata sfusa, la collezione completa dei dischi di Toto Cotugno cantati da Gigi Sabati (veri long-playing dell’orrore), quattordici televisori in bianco e nero, che trasmettevano soltanto i programmi presentati da Pippo Baudo negli anni ’70.
E ancora: otto casse di Chanel 5, aromatizzato al gorgonzola e quattro film di Nanni Moretti. Quelli furono un errore perché non commestibili.
Infine un abbonamento a Panorama, seguito da centodue rotoli di carta igienica: un doppione.
Alle diciassette, fuori orario per Roma, arrivarono i commercianti che caricarono tutto sui loro furgoni, per poi disporre le merci negli scaffali delle botteghe, pronte ad essere vendute ai poveri più meritevoli. Come fa la FAO con le offerte per il terzo mondo. Quando giunsero al clone, lo tirarono su e, visto che non sembrava un gran che, tutto imbrattato di rosso com’era. Lo portarono da un rigattiere. Sor Checco a Via Urbana, lo vide e s’imbestialì: “Andate via, fregnoni! Nun me fregate! I tappeti socialisti degli anni ’80 non si vendono!”
Morale della favola: tanto va il clone al lardo che diventa uno zerbino!
Presso un semaforo di Via… scusate, a Via del Corso, sostava il clone di un antico presidente del consiglio. Scalzo, lacero, orfano e profugo: tutte le sfighe. Il piccolo-grande clone aveva un secchio d’acqua insaponata e una spazzola lavavetri. Gli automobilisti si commuovevano molto. Visto che i profughi di solito sono tristi ed amano gli scherzi, si divertivano a ripartire di scatto non appena il semaforo laser tornava blu, facendo finta di metterlo sotto. I più buoni si facevano lavare il cupolone dell’astro vettura anche dietro, e quando era ben insaponato ingranavano la retro e via!
Nel frattempo il nevischio gommosteroidale continuava a posarsi sul capoccione del clone, coperto di radi capelli sfibrati, ormai fradici di colla e umidità. Poco male, ben presto gli sarebbero caduti tutti, così, povero com’era avrebbe risparmiato qualche soldo di shampoo.
Stanco di un cagnolino meccanico che ogni dieci minuti passava a salutarlo per fargli pis pis sulle gambe (poverino, soffriva anche di artrosi), decise di andare a cercar fortuna al semaforo successivo.
Cammina, cammina, cammina, vide in un parco un disgraziato che sedeva su una panchina. Era un assessore al traffico di organi, indagato, sfrattato, vedovo di tre mogli, padre di una porno diva e di due ragazzi grassissimi, affetti dal morbo di Hamburger, di cui uno cieco e l’altro concorrente al festival di Sanremo, ma in galera per aver rapinato il carcere di Bordighera.
Il clone gli si avvicinò, con l’intenzione di chiedergli una gomma da masticare al cianuro, in vendita da tabaccai per risolvere in fretta le situazioni troppo complicate.
Ma non s’ebbe il tempo di proferir parola che un calore improvviso avvampò, un fuco caldo ed invitante s’accese come un lampo. I due corsero in quella direzione, felici e famelici di calore, per unirsi ad un gruppo d’armeni, vocianti e infreddoliti. La fiamma ardeva intensa, ma l’odore era alquanto sgradevole, acre, come di… benzina. Non emaneranno profumi soavi, ma i neo nazisti bruciano bene.
Quel parco non finiva di meravigliarli. Ecco una musica allegra, accompagnata da cori e slogan: “Venghino, venghino, più gente entra più bestie si vedono!”
Il clone si avvicinò incuriosito ad una grossa gabbia del circo. Che spettacolo agghiacciante! Nella stretta costrizione, ringhiavano nervosamente alcuni oranghi tristi e tre sindacalisti disoccupati. Mosso a pietà, decise di regalar loro ciò che ancora possedeva e gettò l’ultima manciata d monete tra le sbarre, poi, confuso, nascose la fionda e si guardò attorno. Le strade erano stracolme di gente dall’aria abbrutita, decisa a comprare tanti tanti babà alla crema e maritozzi ai loro bambini. Un modo come un altro per eutanasiarli senza sensi di colpa.
Il pallido profugo clonato, desiderava abbrutirsi un pochino anche lui. Pensava: “Che fame! Che freddo! Vorrei esser un tacchino ripieno in un forno ben caldo!” E cadde sfinito nella neve, in ginocchio, reclinando il capo: su questo un colombo di passaggio fece i suoi bisogni.
La realtà è crudele, ma proprio in quel momento, tra gli impalpabili fiocchi di neve che danzavano lentamente, scendendo dal cielo, un bagliore lo abbagliò, una luce accecante lo accecò…
Riavutosi da quel lampo (come di magnesio sul manganesio), iniziò a distinguere una figura misteriosa. Era, forse, la fatina turchina, in trasferta, nel suo elegante ma sobrio tailleur azzurro, con borsetta e tracolla d’ordinanza, ed un elegante cappelletto a bustina in testa?
Il povero clone disse: “Mi scusi, hostess dell’Alitalia, non c’avrebbe duecento euro per un panino?!”
“Sciocco”, rispose la ragazza in bolognese, “me zon la fata, socmél!”
“Socmél, fata”, disse il clone, “è il fato che ti manda!”
“Ma coza dizi, me zon signorina! Comunque e per dunque, me zon qui perché te esprimi i tuoi desideri più reconditi!”
Piano sequenza: il disgraziato giunge le mani violette di freddo, ormai tendenti al fucsia, sulle quali si può notare un principio di lebbra secca. Si concentra.
Et voilà, comparve nella mani della fata un magnifico dolce di panna montata, guarnito di canditi e ciliegine. Premurosa la fatina assaggia la torna. E’ buona, si capisce da un cenno d’assenso del capo. Stacco. Piano stretto di lei: la porge al clone del presidente del consiglio.
Controcampo: gliela spiccica in faccia!
Mentre l’ometto, rantolando carponi tenta di raccogliere la panna tra la neve, la fatina decide di dar libero sfogo alle desideranza (neologismo composto).
Le forme pensiero del clonetto iniziano a materializzarsi in un crescendo spettacolare teso all’ingordigia, ma senza alcun nesso semantico fra loro, come i pensieri di tutti gli uomini politici italiani. Ed ecco piombar giù dalle stelle un enorme cosciotto di prosciutto crudo, che tramortisce un arabo di passaggio: la carne di maiale non fa bene ai musulmani.
In seguito precipitarono dal cielo: un blocco di lardo, trecento forme di pane toscano tradotte in milanese, un’anguilla marinata di Copparo, dodici etti di grissini torinesi con un accento tremendo, sei piatti di orecchiette baresi con le cime di rape, otto pizze alla napoletana, sei birre medie tedesche, tre tiramisù, due caffé e… il conto.
Un attimo di tregua. Poco dopo, ma veramente dopo poco, ecco che i desideri ripresero a cadere dall’alto. E venne giù qualcosa di veramente inatteso, di veramente grosso, ingombrante, petulante, fastidioso: Giuliano Ferrara. Il simbolo della tolleranza culinaria si posò sul testone del piccolo-grande clone, schiacciandolo sotto il peso della cultura giornalistica liberista e liberale.
La pioggia continuò, incurante del botto: brandy spagnolo, frutta fritta cinese, un barile di burro salato danese, e poi… marmellata sfusa, la collezione completa dei dischi di Toto Cotugno cantati da Gigi Sabati (veri long-playing dell’orrore), quattordici televisori in bianco e nero, che trasmettevano soltanto i programmi presentati da Pippo Baudo negli anni ’70.
E ancora: otto casse di Chanel 5, aromatizzato al gorgonzola e quattro film di Nanni Moretti. Quelli furono un errore perché non commestibili.
Infine un abbonamento a Panorama, seguito da centodue rotoli di carta igienica: un doppione.
Alle diciassette, fuori orario per Roma, arrivarono i commercianti che caricarono tutto sui loro furgoni, per poi disporre le merci negli scaffali delle botteghe, pronte ad essere vendute ai poveri più meritevoli. Come fa la FAO con le offerte per il terzo mondo. Quando giunsero al clone, lo tirarono su e, visto che non sembrava un gran che, tutto imbrattato di rosso com’era. Lo portarono da un rigattiere. Sor Checco a Via Urbana, lo vide e s’imbestialì: “Andate via, fregnoni! Nun me fregate! I tappeti socialisti degli anni ’80 non si vendono!”
Morale della favola: tanto va il clone al lardo che diventa uno zerbino!